Perché Ulisse rimase a Sperlonga
È una storia emozionante, come quella di altre grandi scoperte archeologiche avvenute quasi per caso. Una storia iniziata cinquant’anni or sono, che ha portato alla ribalta un piccolo borgo sulle coste laziali, all’epoca tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione. Ce la ripropone l’archeologa Marisa de’ Spagnolis nel suo ultimo libro, L’antologia omerica di Sperlonga (ed. AliRibelli), attingendo alle cronache del tempo e a documenti inediti di quella che era allora la Soprintendenza per i Beni archeologici del Lazio, fra cui alcune lettere dei due protagonisti della scoperta e del sindaco Antonio La Rocca. Del resto nessuno avrebbe potuto ricostruire l’appassionante vicenda meglio di lei, che proprio a Sperlonga ha mosso i primi passi di archeologa, ha visto nascere il locale Museo e dal 2010 al 2012 ne è stata anche direttrice.
La storia ha inizio nel novembre del 1957, quando Sperlonga era lungi dall’essere la rinomata meta turistica di oggi. Era sì nota ai suoi abitanti e agli studiosi la grotta che si apriva ai piedi del monte Ciannito, adiacente ai resti di una sontuosa villa marittima attribuita all’imperatore Tiberio, ma questo non bastava a far notizia: l’Italia abbonda di così tante testimonianze del suo passato! A smuovere le acque (è proprio il caso di dire) fino a degenerare quasi in sollevazione popolare, furono le clamorose scoperte fatte in quella stessa grotta dall’ingegner Erno Bellante, archeologo dilettante, che prestando fede alle fonti classiche e ai racconti di rinvenimenti di marmi antichi all’interno di essa, rischiando per di più una denunzia da parte del soprintendente di allora, Giulio Iacopi, e la propria vita per la presenza in loco di ordigni bellici, effettuò saggi che misero in luce frammenti scultorei di altissimo livello, i primi di una lunga serie (solo fino ad agosto del 1958 se ne sarebbero contati ben seimila!).
Nell’entusiasmo iniziale i giornali, riportando l’opinione a caldo del soprintendente, annunciarono il rinvenimento di una replica del celeberrimo Laocoonte dei Musei Vaticani: notizia in seguito smentita dai primi tentativi di ricomposizione dei frammenti e dai pareri di autorevoli studiosi. In realtà oggi sappiamo che buona parte dei reperti appartiene a quattro gruppi scultorei ispirati dall’Odissea. I due principali, di dimensioni colossali, rappresentano Ulisse alle prese con due mostruose creature: Polifemo e Scilla; i due minori, il ratto del Palladio ad opera sua e di Diomede, e l’eroe di Itaca in atto di sorreggere il corpo di Achille morto. Grazie al fortunato rinvenimento di un’iscrizione in caratteri greci ne conosciamo anche gli artefici: quegli stessi Agesandro, Atanadoro e Polidoro di Rodi ricordati da Plinio come autori del Laocoonte, copia in marmo di un perduto bronzo pergameno voluta da Tiberio per la sua dimora romana.
Data la nota predilezione dell’imperatore per le opere d’arte ellenistiche, gli antichi miti e i paesaggi marini, non c’era scenario più adatto a queste stupende sculture dell’ampia grotta naturale da lui trasformata in ninfeo con un bacino interno rotondo dove esse potevano specchiarsi e una peschiera esterna rettangolare con al centro, a mo’ di isoletta, un triclinio estivo dal quale ammirarle. Grotta dove «si realizza la perfetta fusione tra elemento naturalistico, elemento artistico e momento mitico», ma che – ipotizza la de’ Spagnolis–, prima ancora di queste trasformazioni, dovette essere un luogo di culti misterici legati a divinità come Demetra e Persefone.
Seguita costantemente dai giornali non solo nazionali, l’intera operazione presa in esame si può riassumere in due fasi: nella prima, dal 9 al 14 settembre 1957, il Bellante operò da solo con i suoi operai, all’insaputa della Soprintendenza, riportando alla luce gran parte delle sculture ammassate nella piscina interna alla grotta; nella seconda, dal 15 settembre al 21 ottobre 1957, il soprintendente Iacopi subentrò con il suo staff nello scavo, esteso alla peschiera esterna. In entrambi i bacini i frammenti erano stati gettati intenzionalmente dagli artefici della distruzione sistematica dell’arredo scultoreo della grotta: i monaci insediatisi nelle strutture della villa agli inizi del VI secolo.
Autore di una scoperta che «ha cambiato le nostre conoscenze sull’arte ellenistica di scuola rodia» era stato, come dicevo, un dilettante, il quale comunque «aveva scavato con una tecnica degna del migliore archeologo». All’ingegner Bellante si deve anche se le sculture rimasero a Sperlonga invece di essere trasferite a Roma, come avrebbe voluto il soprintendente. Infatti le ventiquattro ore di tempo da lui chieste a Iacopi furono fondamentali per riuscire a fermare, col coinvolgimento del sindaco La Rocca, i camion che dovevano trasferire nella capitale i preziosi reperti. A corredo del volume, varie foto d’epoca di Egidio Daniele testimoniano la presa di coscienza del patrimonio riemerso nel suo territorio da parte di una popolazione che si attivò per non rimanerne priva: vi fu infatti chi montò la guardia davanti alla grotta, chi all’arrivo dei camion bersagliò con palle di fango gli operai che dovevano caricare i marmi, chi tra le donne si finse incinta piazzandosi davanti ai veicoli.
Grazie a questa pressione pubblica le sculture vennero lasciate sul posto e la Soprintendenza si vide costretta a creare nel 1963, accanto ai resti della villa imperiale, un Museo locale in posizione magnifica a mezza costa con vista sul mare. «L’evento costituì, pertanto, una delle più significative inversioni di tendenza a incrementare il patrimonio archeologico dei grandi musei statali, favorendo invece la successiva creazione di piccoli musei o antiquaria legati al territorio». Come quello di Pergola, che tuttora “tiene in ostaggio” i magnifici “Bronzi dorati di Cartoceto”, rinvenuti nel territorio di quel comune nel 1946 e reclamati dal Museo archeologico di Ancona. Anche quel piccolo comune marchigiano ha conosciuto una sollevazione popolare simile a quella di Sperlonga.
Ci siamo immersi nel clima avventuroso e denso anche di polemiche di una vicenda che pochi oggi conoscono. Ma la storia dei marmi omerici non può dirsi finita: mentre li ammiriamo nelle luminose sale del Museo sperlongano insieme alle loro ricostruzioni in resina epossidica, nei depositi molti frammenti attendono ancora di essere ricomposti, senza contare gli altri che forse giacciono ancora sepolti. La villa di Tiberio, è convinzione dell’archeologa de’ Spagnolis, ha ancora molto da offrire.