Perché togliere un figlio alla sua mamma?

Vista la pericolosità sociale di Martina Levato e del suo compagno, Alexander Boettcher, il tribunale ha deciso di togliere loro il figlio appena nato, impendendo alla madre finanche di allattare, per non creare un legame affettivo che dovrebbe poi essere interrotto, visto che del neonato è stata dichiarata l'adottabilità. Una riflessione
Martina Levato

Da un lato c’è una donna, ritenuta socialmente pericolosa, che da pochi giorni è diventata madre. Dall’altra c’è un neonato, suo figlio. Un bambino appena nato che, per star bene, ha bisogno di toccare la madre, di sentire il suo odore, di ritrovare, anche fuori del pancione, la sicurezza che provava quando era ancora legato al cordone ombelicale. In mezzo ci sono le esigenze sociali, della giustizia, della comunità, che vogliono che quella donna, Martina, stia in carcere per scontare i 14 anni a cui è stata condannata per aver commesso un reato gravissimo e odioso: aggressioni con l’acido.

 

Per giustizia, si è detto, la madre sarà separata dal figlio. Lo è stata praticamente fin da subito, per la verità, e solo dopo molte ore ha potuto abbracciarlo dicendo che era un’esperienza emozionante, che vorrebbe tenerlo con sé e che anche il padre dovrebbe vedere suo figlio. Un figlio che entrambi – madre e padre – stanno per perdere, visto che ne è stata decretata l’adottabilità. Ma riflettiamo.

 

Schiere di pediatri sottolineano, da sempre, l’importanza del contatto, in particolare nei primi mesi di vita, per la crescita sana del neonato. A chi nuoce dunque di più questa separazione forzata? Alla pericolosa criminale o al suo innocente e indifeso bambino, che non può nemmeno essere allattato dalla mamma e ricevere le prime “armi” per affrontare al meglio il mondo? Quella che qualcuno chiama “mostro” non ha dunque neppure un lato di umanità? E chi si assume la responsabilità di stabilirlo? Non si potrebbe lasciare insieme al figlio anche se per un tempo limitato e, come si fa in altri casi, "guardati a vista"? A Martina è stato impedito di allattare per evitare, si è detto, la creazione di un legame che non potrà poi essere coltivato. Ma chi è il criminale? La madre o il bambino, che viene privato dell'unica cosa di cui ha bisogno ora? E perché renderlo subito adottabile? Non sarebbe certo il primo neonato a passare i suoi primi mesi di vita in un carcere e di certo, a certe condizioni (di tutela del suo benessere e di sicurezza), probabilmente non ci sarebbe, per lui, nemmeno differenza con la crescita fuori dalla prigione, in un normale appartamento.

 

E ancora. Il carcere, in Italia, non dovrebbe essere uno strumento di rieducazione sociale? Punitivo, certamente, ma non solo, in quanto finalizzato al reinserimento sociale del criminale. E non potrebbe un bambino, un figlio, suo figlio, contribuire a reindirizzare Martina verso il giusto sentiero, della correttezza e della giustizia, naturalmente sotto l'occhio vigile e attento del personale penitenziario e di esperti? Ogni sentenza è frutto di valutazioni e scelte difficili. E questi sono solo pensieri in libertà e sentimenti di dolore per una madre, a cui è stato strappato il figlio, e per un bambino che non potrà essere stretto al cuore di chi l’ha partorito.

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