Perché toghe e politici si scontrano?

Difetti dell’assetto istituzionale o una questione personale?
giudici

Si fa sempre più aspro il conflitto tra magistratura ed esponenti politici. Eppure, in un sistema democratico, il potere è sottoposto a controlli, sia per contenere la corruzione, sia per scongiurare abusi. L’assetto risponde alla logica dei pesi e dei contrappesi tra il potere esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario. In Italia, la magistratura ha perciò l’obbligo di indagare chiunque quando viene a conoscenza di reati commessi. Andiamo a fondo della questione con Agatino Cariola, docente di Diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell’università di Catania.
 
Il “fattore Berlusconi” è l’unico scatenante il conflitto tra politica e magistratura, o vi è qualcosa che affonda nella struttura stessa del sistema democratico del nostro Paese?
«Divisioni profonde fanno quasi parte della storia italiana: si pensi alla frattura guelfi-ghibellini del medioevo. Ma mi soffermo sulla “grande divisione” del Dopoguerra tra comunisti e sostenitori dei valori occidentali, tra i quali erano compresi certo le libertà individuali, ma anche l’assetto economico capitalista. Ciò ha bloccato l’assetto istituzionale italiano per i primi quarant’anni di storia repubblicana; ha impedito il normale alternarsi di maggioranze al governo e minato la reciproca legittimazione delle forze politiche, anche se i maggiori partiti si riconoscevano nelle radici antifasciste e nel fatto di aver lavorato alla comune Costituzione nel 1947. Solo che ciò avrebbe dovuto finire nel 1989 con la caduta del regime sovietico e la definitiva conversione di tutti partiti  all’integrazione europea».
 
Perché non è avvenuto?
«Non è avvenuto e l’Italia non è diventato affatto quel paese normale che si auspicava. Vediamo i motivi. L’apparizione di forze politiche nate dopo il patto costituzionale del 1947 sembra aver quasi compromesso la tenuta del sistema istituzionale. Ma il punto essenziale sembra essere la trasformazione dei partiti medesimi con l’affermarsi dei partiti personali: questo è un unicum nell’esperienza politica, perché riduce la competizione politica ad una sorta di plebiscito pro o contro una persona».
 
Problema politico o culturale?
«Il problema rimane di ordine culturale e di formazione. Lo scontro tra le istituzioni è il frutto di una lotta che non riguarda più le idee ed i progetti politici, ma le persone. In un Paese normale non dovrebbe ipotizzarsi alcun scontro tra giudici e politici. Rimango perciò scettico sull’idea che i primi mirino ad un progetto e siano guidati da una sorta di "grande vecchio"; vedo di certo nel panorama giudiziario complessivo iniziative isolate e deresponsabilizzate o chiusure corporative, ma mi preoccupo per quelle che riguardano i comuni cittadini che bussano al pianeta giustizia o ne sono coinvolti. Sono, invece, preoccupato per lo scontro istituzionale-personale che non risparmia nessuno».         
 
Per superare questo grave stato di cose sono essenziali le tanto invocate riforme. A suo giudizio è necessario intervenire anche sulla Costituzione o può bastare una riforma della giustizia con legge ordinaria?
«Sono perplesso sull’idea che occorra sempre mettere mano alle leggi ed è opportuno intenderci su come vediamo i problemi e sulle soluzioni da dare. L’assetto istituzionale può essere certo modificato, ma con un accordo molto ampio, perché si tratta di progettare e costruire la casa comune.
«Anche l’ordinamento della giustizia va migliorato e bisogna investire in esso ma senza riforme parziali, veri e propri “tappabuchi”, oppure con interventi “punitivi”. D’altra parte, i giudici vanno formati all’idea che la loro attività è strumentale alla tutela dei diritti delle persone che si rivolgono loro e che atteggiamenti burocratici o corporativi a sostegno della loro particolare categoria non sono certo consoni alla funzione svolta. L’indipendenza della magistratura è un valore per così dire strumentale ad uno più alto, quale la garanzia dei diritti».
 
E nei rapporti tra magistratura e politica?
«In ordine ai rapporti con la politica, cioè a dire riguardo l’azione penale esercitata nei confronti dei politici, penso che al momento non sia opportuno metter mano a riforme. Nel 1993 fu eliminata l’autorizzazione a procedere per i parlamentari per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, ma nel tempo si è sviluppata una ricca giurisprudenza che richiede uno stretto collegamento tra il fatto contestato e le funzioni del parlamentare per riconoscerne l’irresponsabilità. Se il parlamentare rubasse, non vi è spazio per l’irresponsabilità, ma ciò vale anche nel caso di dichiarazioni  gravemente offensive nei confronti di qualcuno».
 
Cosa pensa dell’ipotesi di reintroduzione di meccanismi di autorizzazione?
«Servirebbe a poco. Di fronte ad accuse di reati rivolte a politici che si riversano subito nel sistema mediatico e sull’opinione pubblica, non sarebbe certo sostenibile un filtro preventivo, affidato agli stessi politici, e che lascerebbe spazio a dubbi e polemiche. Un Paese normale celebrerebbe i processi in pochissimo tempo in modo da accertare subito responsabilità oppure l’infondatezza delle accuse. Per questo, avanzerei la proposta di una sorta di corsia preferenziale e di una ragionevole diminuzione dei tempi nei processi a carico di politici». 

 

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