Perché non tassare la speculazione finanziaria?
Nel pieno della crisi greca torniamo sulla campagna internazionale per la tassazione delle transazioni finanziarie. Intervista con Andrea Baranes.
Qualcuno le tasse le paga sempre, prima o poi. Il caso della Grecia «sull’orlo dell’abisso», come afferma il suo presidente della repubblica, mostra tutte le anomalie di un sistema che fa pagare la crisi ad un popolo intero non riuscendo a colpire gli autori della grande speculazione ed evasione.
È uno dei tanti volti delle «illusioni del capitalismo tecno-nichilista», come lo definisce il preside di Sociologia dell’Università cattolica di Milano, Mauro Magatti, che nel descrivere l’attuale crisi economica non cita il 1929 ma la situazione del 1907, che condusse alla Prima guerra mondiale.
Eppure esisterebbero strumenti adatti a frenare la grande famelica speculazione finanziaria. Quanto mai attuale, quindi, riprendere il discorso sulla campagna internazionale “Zerozerocinque” a favore dell’adozione della minuscola tassa, lo 0,05 per cento appunto, sulle transazioni finanziarie. La misura potrebbe essere adottata dal Gruppo del G20 che vede raccolti,dal 1999, i governi dei paesi più sviluppati per concordare misure comuni di governo globale dell’economia. Il prossimo appuntamento del G20 è fissato a giugno in Canada.
Ne parliamo con Andrea Baranes che della “Zerozerocinque” è uno dei maggiori sostenitori rappresentando, tra le realtà promotrici, il grande lavoro che è stato compiuto finora dalla Campagna per la riforma della banca mondiale.
Di nuovo si parla di tassa sulle speculazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin tax. Teoricamente quasi tutti d’accordo ma alla fine, di solito, non si arriva a nessun risultato. Quali ostacoli si incontrano ?
« Gli ostacoli sono principalmente di natura politica e non tecnica. Diversi studi hanno ormai chiarito come una tale proposta potrebbe essere applicata in maniera relativamente semplice, con un costo molto ridotto e con limitatissime possibilità di elusione. L’attuale proposta allarga sostanzialmente l’idea originale della Tobin Tax. Quest’ultima si riferiva unicamente alle valute, mentre la tassa sulle transazioni finanziarie include, oltre alla stessa compravendita di valuta, anche tutte le operazioni su titoli finanziari. Tutte queste transazioni vengono registrate su piattaforme elettroniche. Sarebbe sufficiente un apposito software per registrare e prelevare in automatico il gettito».
Ma si tratta solo di studi teorici? Oppure esistono già dei casi concreti di applicazione?
« Casi di imposte su particolari transazioni finanziarie esistono già e dimostrano come tale ipotesi sia non solo possibile, ma anche realizzabile. L’esempio più evidente è la Stamp Duty, applicata in Gran Bretagna su ogni acquisto di azioni di imprese britanniche da parte di investitori stranieri. È un’imposta piuttosto alta, pari allo 0,5 per cento sul valore nominale dell’azione. Devono pagarla gli investitori esteri e più in generale ogni operatore che acquisti dall’estero azioni di imprese britanniche. Questa imposta ha generato nel 2006 una cifra vicina ai 5 miliardi di euro. Il meccanismo prevede che un investitore non diventa legalmente proprietario di un titolo se non dimostra il pagamento dell’imposta. Differenti imposte su specifiche transazioni finanziarie sono già in essere in Austria, Grecia, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Spagna, Svizzera, Hong Kong, Cina, Singapore.
E negli Usa ?
«A Wall Street, la borsa di New York, esiste un’imposta molto bassa su tutte le imprese quotate sui due mercati principali, il New York Stock Exchange e il Nasdaq. L’imposta attuale è pari allo 0,003 per cento e il gettito viene utilizzato per finanziare l’ente di controllo e supervisione dei mercati, la Security and Exchange Commission – Sec. È stata dimezzata dall’amministrazione Bush perché il gettito era “eccessivo” per lo scopo per cui è pensata. Si conferma quindi come l’ostacolo maggiore risieda nell’enorme potere delle lobby finanziarie e nella mancanza di volontà, fino a oggi, del mondo politico. La crisi finanziaria degli ultimi anni ha parzialmente rimesso in discussione le cose, ma è necessario un forte impegno della società civile per spingere verso un’approvazione della tassa».
Davvero una tassa simile si potrebbe applicare solo nella zona dell’euro?
«Assolutamente sì. Da un punto di vista tecnico, grazie ai sistemi di registrazione elettronici, ogni transazione viene registrata e potrebbe essere tassata in automatico. Questo significa in particolare che tutte le operazioni in euro potrebbero essere tassate (anche quelle estero su estero), dando anche un forte segnale per una progressiva implementazione a livello internazionale. È anche fortemente improbabile che questo possa avere impatti negativi per l’economia della zona euro. Al contrario, verrebbero frenate le attività speculative e più nocive, liberando enormi risorse per l’economia reale. Nuovamente, l’esempio della Stamp Duty mostra come un’imposta, anche relativamente alta, non abbia avuto impatti negativi sull’economia britannica, e ancora meno sui suoi mercati finanziari».
Le nuove norme a livello internazionale sui paradisi fiscali sono davvero efficaci, oppure si tratta di misure che non incidono in maniera efficace e risolutiva ?
«Nonostante i proclami e le dichiarazioni pubblicate dopo gli ultimi vertici, a partire da quelli del G20, fino a oggi sono poche le misure concrete che sono state adottate su scala internazionale per contrastare i paradisi fiscali».
Eppure non sono stati sottoscritti molti accordi sul tema…
I Tieas sono degli accordi bilaterali tramite i quali due Paesi si impegnano a scambiarsi informazioni – unicamente su richiesta di una delle due parti in causa – in materia fiscale. In base al numero di accordi firmati, una nazione viene inserita nelle famigerate liste nere, grigie o bianche dell’OCSE, ovvero, in pratica, viene considerata dalla comunità internazionale un paradiso fiscale o meno. Negli ultimi anni, le giurisdizioni sospettate di essere paradisi fiscali si sono affrettate a siglare un buon numero di tali accordi, ovviamente, però, con Paesi verso i quali i flussi finanziari sono scarsi o nulli, o ancora meglio tra di loro.
Facciamo un esempio?
«Tra gli accordi bilaterali firmati da San Marino, spiccano quelli con l’Islanda, le Bahamas, Andorra, il Principato di Monaco e le gettonatissime Groenlandia e isole Far Oer. Viene da domandarsi quale impatto potranno mai avere tali accordi sul contrasto all’evasione internazionale e ai grandi flussi illeciti di capitali. Se anche ci fossero dei movimenti sospetti tra queste giurisdizioni, siamo sicuri che il Principato di Monaco muoverebbe una richiesta di informazioni al Liechtenstein o ad Andorra, alle Bahamas o a Samoa, in base ai Tieas siglati?
Nessun accordo, al contrario, risulta al momento firmato tra lo stesso Principato e l’Italia, dove probabilmente avrebbe una rilevanza ben diversa. Ma tanto l’importante è fare numero…
Ancora, le giurisdizioni più forti economicamente e politicamente, quali Stati Uniti o Germania, possono riuscire a imporre la firma di un accordo bilaterale alle piccole nazioni offshore. I Paesi del Sud no. E’ così che quasi tutti i TIEAs “veri” firmati fino a oggi coinvolgono Paesi del Nord, mentre i proventi della corruzione o dei traffici illeciti realizzati nelle nazioni più povere possono continuare indisturbati a fluire nei forzieri delle grandi banche nel Nord tramite le loro filiali nei paradisi fiscali».
Vi rivolgete giustamente alla società civile. Il mondo politico è del tutto sordo, oppure ci sono segnali diversi?
«Ci sono stati alcuni segnali incoraggianti negli ultimi mesi, riguardo la tassa sulle transazioni finanziarie, nella lotta ai paradisi fiscali e su altre questioni. Riguardo la tassa, ad esempio, tanto il presidente francese Sarkozy quanto il cancelliere tedesco Angela Merckel si sono dichiarati a favore, cosi come il presidente della Commissione Ue Barroso e altri. Analogamente, iniziative interessanti nel contrastare i paradisi fiscali sono state prese negli Usa, in Germania e in altri Paesi.
Si tratta però ancora di proposte isolate e lasciate all’iniziativa dei singoli governi. Manca, a tutt’oggi, un coordinamento internazionale che permetta di rispondere alle sfide di un mercato finanziario ormai globalizzato. Ci auguriamo che i prossimi vertici, a partire dal G20 di giugno in Canada, possano rappresentare una svolta nell’impegno della comunità internazionale, ma fino ad oggi, a fronte di grandi dichiarazioni, le misure concrete per frenare lo strapotere della finanza sono davvero poche».
Seguendo il genere della «finanza spiegata a mio figlio» come spiegherebbe, in parole semplici, la Campagna per la riforma della banca mondiale di cui è portavoce ?
«La campagna è nata quasi quindici anni fa per chiedere che la Banca mondiale cambiasse radicalmente il proprio mandato, o meglio che tornasse al suo mandato originario. La Banca mondiale, assieme al Fmi, è nata con la conferenza di Bretton Woods nel 1944.
Il suo primo compito, quando fu creata con il nome di banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, era quello di aiutare i Paesi usciti distrutti dalla seconda guerra mondiale. In pratica, Banca e Fondo erano pensate come istituzioni per favorire una cooperazione internazionale: enti pubblici, formalmente sono nate come agenzie specializzate dell’ONU, finanziate da tutte le nazioni del mondo per aiutare i Paesi in momentanea difficoltà».
Cosa è che non ha funzionato?
«Il mandato originario è andato rapidamente perso, e le due istituzioni hanno rapidamente incarnato gli ideali neoliberisti: sempre più libero mercato, sempre meno interventi nazionali, un controllo ferreo sui Paesi più poveri e pesanti condizionamenti delle loro politiche nazionali.
La Crbm è quindi nata come campagna specifica per chiedere che la Banca mondiale operasse con maggiore trasparenza, democrazia e reale attenzione alle problematiche Nord – Sud. Nel corso degli anni abbiamo ampliato il nostro lavoro a tutti i flussi finanziari Nord – Sud, e ci occupiamo oggi di campagne e ricerche su Banca e Fondo, ma anche su banche private e finanza internazionale».