Perché la Terra è madre
Mani callose, volti segnati dalle intemperie, braccia robuste, spiriti intraprendenti. Contadini, pescatori, produttori. E poi cuochi e docenti universitari. È un piccolo mondo quello che si incontra a Torino negli stessi giorni del Salone del gusto, dal 26 al 30 ottobre. Il capoluogo piemontese e le altre città vicine aprono case e cuori a più di 5 mila delegati arrivati da tutti i continenti. Presso il Lingotto, all’Oval, la struttura moderna che ha ospitato le gare delle Olimpiadi invernali, si svolge la seconda edizione di Terra madre, l’incontro mondiale tra le comunità del cibo di cui fanno parte tutti quei soggetti che operano nel settore agro-alimentare in un determinato territorio. I due eventi, (il Salone del gusto e Terra madre), sono organizzati da Slow food, l’associazione internazionale no profit che, nata come contro-proposta al fast food, difende le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni angolo del mondo, invoca il diritto dei popoli alla sovranità alimentare, combatte l’omologazione dei sapori e le manipolazioni genetiche. Un piccolo mondo, dicevamo. Dove incontriamo ad esempio Ayesha Akther, 32 anni del Bangladesh. Una laurea in Scienze politiche all’università di Dacca, la capitale, e una scelta di vita coraggiosa. Perché anziché tentare una carriera personale ha creato nel suo villaggio natale la Chetoma Mohilla Sanghta, un centro di formazione, in primo luogo e poi un istituto di microcredito che permette a 400 donne di lavorare. Qui all’Oval si può fare davvero un giro intorno al mondo perché gli oltre cinquemila partecipanti sono di tutti i colori. Dall’Africa, ad esempio, sono arrivate a Torino 200 comunità del cibo, 640 partecipanti, in rappresentanza di 42 Paesi, dall’Algeria al Sud Africa, dalle isole di Capo Verde al Madagascar, al Senegal, Costa d’Avorio, Burkina Faso… Agricoltori, pastori, pescatori, raccoglitori di prodotti spontanei si confrontano su temi di diversa natura: la pesca industriale, l’introduzione di sementi e varietà geneticamente modificate, l’omologazione delle colture, la desertificazione, l’inquinamento delle acque, la siccità. Dalla Mauritania sono venute alcune donne Imraguen, depositarie della lavorazione tradizionale della bottarga. Il loro prodotto è comprato per pochissimi soldi da intermediari che poi fanno fortuna all’estero. A Torino cercano mercati alternativi. Oltre 100 sono le comunità del cibo provenienti dall’immenso continente eurasiatico, dall’Afghanistan alla Cina, dalla Siberia all’Armenia. Tra tutte, la comunità più curiosa è senza dubbio quella proveniente da Mumbai. Si tratta dei dabbawala, riconoscibili per il tipico berretto bianco alla Gandhi. Simbolo della città, sono quasi 2 mila e ogni giorno consegnano circa 100 mila pasti prelevandoli in casa delle famiglie per portarli direttamente, all’ora pre stabilita, ai loro congiunti sul luogo di lavoro. E poi sono presenti i produttori di formaggio di yak della repubblica confederale russa di Tuva, quelli di ortaggi biologici della Giamaica, di cacao di Haiti, la comunità dei produttori di uvetta di Herat, nell’Afghanistan nordoccidentale… L’elenco è veramente lungo e dice la necessità diffusa a livello mondiale di un’economia, anche agricola, a misura d’uomo, capace di contrapporsi ad una globalizzazione spietata. Un’agricoltura rispettosa della Terra, della biodiversità, delle specificità locali. Un cibo buono, pulito, giusto, quello promosso da Carlo Petrini e dai suoi di Slow food. Per evitare nuove schiavitù, come quelle cui sono sottoposti tanti contadini del mondo obbligati a comprare ogni anno dalle multinazionali sementi che non si riproducono più. In India i tassi di suicidio tra gli agricoltori sono in continuo aumento, denuncia Vandana Shiva, ricercatrice e attivista indiana. Perché, come da tante altre parti, si vedono introdotte nel loro Paese a prezzi più bassi le eccedenze alimentari di altri Stati (il noto dumping); e perché i brevetti sulle sementi di fatto impediscono qualsiasi libertà di produzione. Anche per questo da Torino si riparte con una proposta concreta: un manifesto sul futuro dei semi per la tutela della loro biodiversità e a difesa da qualsiasi contaminazione ogm. L’obiettivo è quello di creare un network mondiale affidato principalmente alle donne. Senza dubbio una manifestazione di impatto, questa di Terra madre, che tanto più avrà un futuro quanto più saprà inserirsi in quella rete mondiale esistente di associazioni ed organismi internazionali vari che si adoperano per garantire a tutti il cibo e che sia altrettanto buono, pulito e giusto. Perché sempre più l’efficacia della propria azione aumenta di tanto in quanto si collabora con altri. Ognuno con il proprio metodo, certo! Globalizzare le buone pratiche Intervista a Bruna Sibille, assessore della Regione Piemonte alla montagna e foreste, opere pubbliche, difesa del suolo. Una donna energica e piena di idealità, Bruna Sibille. La incontriamo presso il Centro Mariapoli di Bra (Cn) che ospita una sessantina di convegnisti di Terra madre, al termine di una serata multiculturale ricca di festa e di gioia. Anche lei è braidese, come il fondatore di Slow food col quale è in stretta collaborazione. Qual è il significato di un evento come Terra madre? Terra madre va letto a vari livelli. Un primo livello è quello di un incontro tra produttori contadini, pescatori, allevatori che, partendo da esperienze, culture, tradizioni, lingue diverse, si confrontano nel rispetto della madre terra. Un secondo aspetto è l’incontro di popoli che, attorno al tema del mondo agricolo vede insieme produttori, esponenti della cultura e i più grandi cuochi del mondo. È un modo con cui chi produce entra in contatto diretto con chi utilizza e anche con chi in qualche modo gestisce la scienza ufficiale. Un terzo livello è la presa d’atto della situazione agricola mondiale per cui, a fronte di una sovrapproduzione che basterebbe per 12 miliardi di persone, oltre un miliardo di abitanti del pianeta muore di fame. È quella distribuzione assolutamente insensata con una fetta di popolazione ricca che deve curare il diabete e una fetta poverissima che non ha accesso al cibo. Eventi come Terra madre concorrono a farci capire che non si può pensare di intervenire in maniera caritatevole per salvarci la coscienza. Dobbiamo intervenire perché nessuno si salva da solo. Questo vuol dire farsi contaminare dalle diverse esperienze, sapere che ciascuno apporta del buono e dal confronto può nascere una crescita. In questo sta l’elemento positivo della globalizzazione, sta la possibilità di costruire un mondo nuovo: nel sapersi confrontare con i problemi dell’altro, assumendoli come possibilità di fare un percorso insieme. Lei ha seguito la realizzazione di Terra madre. Che percorso è stato fatto in questi due anni? Sicuramente dalla prima alla seconda edizione sono successe molte cose indipendentemente da noi, sono nate molte reti. Adesso occorre lavorare perché si crei sempre più un collegamento fra le comunità di produttori di tutto il mondo, con un aiuto che è un di più per tutti perché, nel momento in cui io aiuto un gruppo del Burkina Faso a trovare delle sementi adatte a terreni poco fertili o aridi, imparo anche, ad esempio, che nella nostra pianura piemontese non si può continuare a immaginare all’infinito una coltivazione di mais che necessiti di tanta acqua. Questo è un interscambio assolutamente positivo. Un caso che tutto questo sia partito da Bra e abbia trovato particolare ospitalità in Piemonte? Io credo che non sia casuale che Slow food sia nato a Bra che ha dato i natali al Cottolengo e si sia sviluppato in questo Piemonte che ha visto operare Gramsci, Gobetti e il beato Cafasso su realtà di grande emergenza dal punto di vista sociale. Non è un caso che già nella sua prima edizione Terra Madre abbia avuto a Bra, presso il Centro Mariapoli, un suo punto di riferimento, perché c’era bisogno di trovare luoghi che già avevano praticato una globalizzazione fatta di valori condivisi.