Perché ho scelto di vivere in un campo profughi
Sembrerebbe una pazzia.Come si può lasciare la propria casa in Italia: le sicurezze, gli agi, gli affetti e addirittura il lavoro, per trascorrere uno, due o tre mesi in Libano, al confine con la Siria, dove si sta consumando uno dei conflitti più atroci degli ultimi anni? Eppure, c’è chi lo fa. Giovani e meno giovani, desiderosi di conoscere le storie e di condividere difficoltà e dolori di chi ha dovuto tagliare con il proprio passato e scappare via dalla propria casa. Di chi si è accampato ai margini della guerra, sperando un giorno di poter tornare a casa e di riuscire a ricostruirla. Di chi ricorda ogni giorno le sofferenze e gli orrori da cui è scappato, ma non per questo rinuncia alla tenerezza, a donare un sorriso al figlio, nato nel nulla di un campo profughi.
Succede in Libano, ma anche in altri Paesi teatro – oggi o in passato ‒ di conflitti, come Palestina, Colombia, Albania. Tutto nasce circa 20 anni fa, quando un gruppo di studenti della comunità papa Giovanni XXIII, non volendo rimanere a guardare la guerra che si consumava nei Balcani, decise di alzare le prime tende, per cercare di portare sollievo a chi era coinvolto in quel conflitto fratricida. Aiutavano come potevano: consegnavano messaggi alle famiglie divise dal fronte, portavano medicine e cibo. Vent’anni dopo, i volontari dell’Operazione Colomba sono in Libano.
Nel campo di Tell Aabbas, nella regione di Akkar, al confine con la Siria, da quattro anni vivono con una quindicina di famiglie, una settantina di persone che hanno perso tutto fuorché la speranza e che si autosostengono con lavori di fortuna, districandosi tra il sospetto dei libanesi e i controlli delle forze dell’ordine. Non tutti hanno i 200 dollari necessari per rinnovare, ogni anno i documenti, e quindi si ritrovano clandestini, con il rischio di finire in prigione.
Ma cosa spinge a vivere in un campo profughi? «Ho deciso di venire qui – racconta Laura, di Udine – dopo aver conosciuto una ragazza che era venuta in Libano come volontaria. Sono stata molto colpita da questo progetto che mette in discussione il mondo della cooperazione che ho studiato». Laura avrebbe potuto scegliere la solita strada: uno stage in una organizzazione non governativa, poi il supporto ai rifugiati. Invece, ha scelto la condivisione. Per vivere con loro la guerra. «I rifugiati – aggiunge ‒ parlano sempre di guerra e quando non lo fanno la vedi nei loro occhi. L’avverti nei loro gesti. È una piccola esperienza, ma la consiglierei a tutti».
Francesca è sarda e ha deciso di trascorrere qui le sue ferie. «Vivere in un campo profughi quotidianamente – spiega ‒ ti fa essere dentro il problema». Ma fa scoprire anche la speranza incrollabile, quella di un padre, che in prigione in Siria è stato torturato ed ha visto altri torturati, ma che ancora spera di garantire a sua figlia un futuro diverso. Tommaso di Torino, invece, è in pensione. È arrivato in Libano da qualche tempo e ripartirà per l’Italia prima di Natale. «In Italia ‒ spiega – guardando i barconi su cui viaggiano i profughi che arrivano dalla Siria mi sono chiesto spesso cosa potessi fare io. Mi sentivo impotente e ho deciso di fare questa esperienza. La nostra è una condivisione attiva. Vivere in un campo profughi è una grossa ingiustizia, ma vogliamo viverla con loro anche per denunciarla».
Quando gli aerei bombardano la Siria, spesso i rimbombi si sentono anche a Tell Aabbas. E i volontari tremano con chi soffre. «A volte ‒ spiega Alessandro, di Torino che da due anni segue il progetto ‒ si guardano i rifugiati come se non avessero un nome, una storia. Invece chi fugge da una guerra ha una storia, ha fatto delle scelte, ha la stessa dignità di chi decide di rimanere. Ha solo scelto di non imbracciare le armi e di non uccidere altre persone. La nostra presenza in questa terra di confine da un lato vuole rassicurare i siriani, che talvolta vengono anche minacciati dai residenti. Dall’altra, il fatto di aver lasciato un Paese sicuro, come l’Italia, per vivere in un campo profughi, fa capire ai libanesi che anche i rifugiati hanno una dignità, sono persone come noi e non sono pericolosi».
I volontari di Operazione Colomba promuovono interventi civili di pace e sono stati protagonisti, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, della creazione dei corridoi umanitari che hanno portato un centinaio di rifugiati in Italia e hanno altre iniziative simili ancora in programma. Vogliono essere vicini ai rifugiati, ma chiedono anche alla comunità internazionale di creare in Siria zone protette per i cittadini inermi e di far cessare l’afflusso delle armi, per fermare il conflitto.