Perché è Santo
Un nuovo libro ripercorre la vita di Giovanni Paolo II attraverso i racconti dei 114 testimoni del processo di beatificazione. Ne scaturisce un affresco inedito.
«Cercano di capirmi dal di fuori. Ma io posso essere capito solo da dentro». Così, una volta, si espresse, lasciandosi andare ad una confidenza di estrema intimità, Giovanni Paolo II. Ed è questa la chiave di lettura che il postulatore della causa di beatificazione Slawomir Oder ben chiarisce nel suo libro, scritto insieme a Saverio Gaeta, Perché è Santo, edito dalla Rizzoli.
Il libro ripercorre la vita di Karol Wojtyla attraverso i racconti dei 114 testimoni del processo di beatificazione. Le loro dichiarazioni costituiscono un mosaico di fatti, aneddoti, a volte inediti, che ci restituiscono il volto autentico del grande papa in molteplici aspetti della sua ricca personalità. Dall’umorismo, alla grande affabilità e socievolezza, fino alla sua vita intima, alla sua straordinaria spiritualità e unione con Dio.
Il suo percorso esistenziale consiste «nel risalire un ruscello controcorrente per arrivare infine alla sorgente, al momento in cui Dio ha creato l’uomo a propria somiglianza». Emergono alcune caratteristiche: la povertà e la sua attenzione e generosità per ogni uomo che gli passava accanto. Condivideva con i poveri tutto quello che aveva e donava in continuazione ciò che aveva indosso, anche fosse l’unico maglione o l’unico cappotto. «Una domenica mattina, nella chiesa di San Floriano, i fedeli dovettero aspettarlo parecchio prima che si presentasse per la celebrazione. Lo fece solo dopo che il sacrestano, andato a sollecitarlo, gli ebbe prestato le proprie scarpe. La sera precedente, il giovane viceparroco (Wojtyla) aveva infatti regalato l’unico paio che possedeva ad un amico studente che ne era privo».
Tra i molteplici episodi toccanti un giorno, trovandosi in una favela di Rio de Janeiro, Giovanni Paolo II «fu profondamente colpito dalla estrema povertà di una famiglia. Così, si tolse l’anello dal dito e lo regalò alla mamma dei bambini che gli si affollavano intorno». E non era un anello qualsiasi, era l’anello d’oro ricevuto da Paolo VI quando era stato creato cardinale.
Siamo abituati a conoscere il Wojtyla pellegrino del mondo, dai gesti inconsueti, da pescatore di uomini, eppure era dalla preghiera che derivava la fecondità del suo agire. In ogni caso e situazione era convinto che solo con la preghiera si poteva trovare una soluzione.
Molti testimoni raccontano come «durante la preghiera sembrava in continua conversazione con Dio». Parroco in Polonia, spesso lo hanno trovato durante la notte e, per quanto freddo facesse, disteso a pregare sul pavimento della cappella. Tanto che, una volta papa, nella cappella privata del suo appartamento hanno dovuto costruire una piattaforma in legno, sopra il freddo marmo del pavimento.
Ma il vero segno del suo pontificato è stato quello della sofferenza. Sono stati ben 164 i giorni trascorsi al Policlinico Gemelli. «Io mi domando che cosa vuole comunicarmi Dio con questa malattia» disse ad un medico che gli chiese come si sentisse. «Io ho scritto tante encicliche, ma mi rendo conto che solo con le mie sofferenze posso contribuire ad aiutare meglio l’umanità». E il dolore non è l’ultima parola ma «deve generare solidarietà, dedizione, generosità».
Erano queste le radici della sua gioia, anche del suo umorismo, a volte incontenibile, come quando, un giorno, una della suore in servizio nell’appartamento gli disse, vedendolo molto affaticato di «essere preoccupata per sua santità». «Anch’io sono preoccupato per la mia santità» fu la sorridente e fulminea risposta del papa. Preoccupazione infondata, e ormai superata.