Perché bisogna pagare i debiti

italia euro

Nella confusione che precede la campagna elettorale d’inverno aperta dalle dimissioni di Mario Monti, è possibile intravedere un pericoloso partito trasversale, fatto da tutti coloro che pensano che sia possibile non pagare l’enorme debito pubblico italiano; il ritorno sulla scena di Berlusconi, in particolare, «eccita quella parte del Paese convinta che le cambiali si possono non pagare», come sostiene Antonio Polito sul Corriere della Sera del 10 dicembre.

 

Invece i debiti bisogna pagarli, tanto più quando, come il debito pubblico italiano, dipendono da decenni in cui abbiamo vissuto al di là dei nostri mezzi, in cui le uscite hanno superato le entrate pubbliche, obbligandoci a chiedere la differenza in prestito ai mercati. Questa situazione, ben diversa dal mutuo che una famiglia fa per comprare la casa o dai prestiti che un’impresa chiede per investire, con un piano di rientro dal debito preciso e credibile, è a sua volta creatrice di debito. Negli ultimi anni, infatti, l’Italia ha spesso avuto spese correnti inferiori alle entrate, eppure il peso degli interessi sul debito ha creato un deficit sistematico che, accumulato, ha fatto aumentare il debito complessivo anno dopo anno, fino ai duemila miliardi di euro attuali.

 

Perché bisogna ripagare il debito? Non certo perché ce lo chiede la Merkel, che ne ha peraltro tutte le ragioni, nell’interconnessione delle economie della zona euro, in cui ciò che fa un Paese, nel bene e nel male, ha un’influenza diretta su ognuno degli altri Stati. Ci sono tre ordini di ragioni, di carattere soprattutto interno, che premono per farci adempiere ai nostri obblighi.

 

La prima ragione è che pagare i propri debiti è un dovere morale. Abbiamo, come collettività, ad ogni emissione di debito pubblico, preso l’impegno di restituire i soldi prestatici, e la nostra credibilità dipende dalla nostra serietà nell’onorare gli impegni. Per questo Monti è così popolare in Europa e presso i nostri partner mondiali. Perché ha dimostrato questa serietà, pur se, nel poco tempo a sua disposizione e sostenuto da una strana maggioranza piuttosto ondivaga, ha agito più sul lato delle entrate (aumento della pressione fiscale) che su quello della ristrutturazione della spesa, che sarebbe necessaria, anche – ma non solo – per eliminare odiosi sprechi e abusi di cui la classe politica è diventata emblema.

 

La seconda ragione è il principio di reversibilità. Se fossimo creditori, ci piacerebbe che i nostri debitori ci ripagassero? Ovviamente sì. Allora perché pensare di fare i furbi e di farla franca quando siamo noi i debitori? All’annuncio della ridiscesa in campo di Berlusconi (quella, per intenderci, di inizio dicembre, che ha causato la virata di rotta del PdL e le dimissioni di Monti), c’è stata un’immediata massiccia vendita di titoli di stato italiani il lunedì successivo alla dichiarazione di resa di Monti. Chi ha venduto? Soprattutto nostri connazionali che li avevano in portafoglio, e che si sono precipitati a liberarsi di un potenziale fardello reso pericoloso dall’incertezza della situazione politica.

 

La terza ragione che impone di pagare il debito pubblico italiano sono le possibili conseguenze, neanche del fatto di non pagarlo, ma anche solo di pensare di poterlo non pagare, sia sul lato delle entrate, sia su quello delle uscite. Un anno di governo Monti forse non ha cambiato i costumi degli italiani, ma certo ha messo molta pressione su una categoria, che è passata dall’essere oggetto di una ammirativa invidia a essere considerata alla stregua di paria: gli evasori, specie se totali. Se una possibile destra sgangherata, che ha già ceduto alla sinistra il rigore nella gestione dei conti ed il senso delle istituzioni – fatto grave per la storia di questa parte politica e incredibile per chi ci osserva dall’estero – scenderà il campo rinnegando l’agenda Monti, molti – che non pagano le tasse – si sentiranno legittimati a continuare bellamente a non farlo, e gli altri forse ricadranno nella rassegnazione che ha caratterizzato tanti anni recenti. Sull’altro versante, solo una forte pressione a mantenere il rigore sui conti pubblici, dettata anche dal peso del debito e dalla necessità di ridurlo, potrà indurre a più miti consigli una possibile brancaleonesca coalizione di centrosinistra, che per poter (cercare di – l’esperienza di due governi Prodi insegna) governare potrebbe essere tentata di elargire prebende a destra e a manca per procacciarsi o mantenere alleanze.

 

L’unico valido motivo per non pagare i debiti è il fallimento. È la situazione in cui si è trovata la Grecia nel maggio 2010, e per poco non trascina nel baratro mezza eurozona, tra cui l’Italia. Non è una bella situazione, e le svalutazioni cui ci avevano abituato i nostri governi vigente la lira equivalevano a piccole dichiarazioni di fallimento che, se da un lato davano un (artificiale) impulso competitivo alle esportazioni, dall’altro trasformavano in carta straccia parte del debito pubblico. Ad un costo molto semplice: l’aumento dell’inflazione, una tassa che colpisce tutti, specie le fasce più deboli della popolazione. Ora questo strumento con l’euro non esiste più, e ci aiuta ad abituarci a fare i conti con la realtà.

 

Anche se lo spread va meglio di un anno fa, continuiamo ad essere sull’orlo del baratro. La situazione, con le forze in campo che conosciamo a metà dicembre, non promette molto di buono, tra populismi che sembrano incapaci di fare i conti con il principio di realtà, coalizioni ideologicamente raffazzonate e venti forti di contestazione della classe politica attuale, ma con poche idee su una realista politica futura.

Dalle nostre scelte dipende il futuro dell’Italia e dell’Europa in un momento ancora drammaticamente delicato. Non dimentichiamocene in cabina elettorale.

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