Perchè Atene rischia il baratro
Summum ius, summa iniuria, scriveva Cicerone, a significare che spesso l’esercizio estremo della legge e il preteso rispetto delle regole al di fuori di una comprensione profonda delle concrete situazioni alle quali tale legge e tali regole dovrebbero applicarsi, porta il più delle volte ad esiti grandemente ingiusti.
Sono convinto che questa antica lezione dovrebbe illuminarci anche oggi, in particolare nella valutazione della “concreta situazione” greca.
Siamo ormai al muro contro muro: la Troika (il Fondo Monetario Internazionale, L’Unione Europea e la BCE), sotto la forte influenza della Germania, da una parte, non è più disposta a concedere nuovo spazio di manovra alla Grecia, che dal canto suo si è dimostrata, negli ultimi negoziati, una controparte inaffidabile e arrogante. Avevamo descritto tempo fa questo negoziato, utilizzando il linguaggio della teoria dei giochi, come il tentativo di trovare un modo razionale per dividersi una torta che col passare del tempo, però, diventa sempre più piccola. Una soluzione razionale a questo problema esiste, avevamo detto, ma solo a patto che le parti in campo siano sufficientemente pazienti. Quanto visto finora ci fa dire che, né il governo Tsipras, né la Troika sembrano esserlo stati a sufficienza e ormai la torta è quasi del tutto sparita. Questo ha fatto sì che la situazione assumesse connotati gravi benché non sia ancora del tutto irreversibile.
Per cercare di valutare la questione nella sua complessità e da un punto di vista meno parziale possibile, sembra sia importante sottolineare sei punti.
Primo, la Grecia sta, fin da principio, dalla parte del torto. Stiamo parlando, non dimentichiamolo, di uno Stato e di una classe politica, che per anni ha truccato i bilanci, nascondendo la realtà dei fatti agli altri paesi membri dell’Unione Europea e utilizzato il denaro pubblico per politiche populiste ed economicamente insostenibili.
La classe dirigente greca ha dunque responsabilità enormi, ma non bisogna trascurare il fatto che ampi strati della popolazione hanno tratto grandi benefici da tali politiche, in un patto implicito all’accaparramento che ha dissanguato le finanze pubbliche. Potremmo fare l’esempio del “bonus puntualità”, a cui si ha diritto quando si arriva in ufficio in orario, o al bonus di cui godono quei lavoratori forestali che decidono di lavorare all’aria aperta. Anche i parrucchieri, i musicisti (ma solo quelli che suonano uno strumento a fiato), i presentatori televisivi e altre seicento categorie di lavoratori hanno diritto a un trattamento speciale; in questo caso la possibilità di andare in pensione anticipatamente, a 50 anni per le donne e a 55 per gli uomini, questo perché svolgono lavori usuranti; i parrucchieri a contatto con le tinture per capelli, e i presentatori a causa dell’utilizzo dei microfoni (non è uno scherzo n.d.a.). Poi ci sono le figlie nubili dei dipendenti pubblici che invece hanno diritto a continuare a percepire la pensione del padre, una volta deceduto, ma solo a patto che non decidano di trovarsi un lavoro perché a quel punto il diritto decade. Solo queste pensioni costano alle casse dello Stato greco mezzo miliardo di euro all’anno. Insomma una gestione delle finanze pubbliche che definire “allegra” è poco, anche se la giudica con benevoli standard italiani.
Secondo: i debiti si pagano, gli impegni si rispettano. Rinunciare a questa regola aurea vorrebbe buttare all’aria la logica stessa dell’economia mercantile, non dico come l’aveva concepita Adam Smith nel ‘700, ma addirittura come l’avevano teorizzata i francescani e praticata i mercanti della grandi città indipendenti già dal ‘300. Fides, fido, fede, credito, credere, sono tutti termini teologici e mercantili allo stesso tempo, testimonianze semantiche di culture profondamente intrecciate. I più poveri tra i poveri, per lungo tempo, non sono stati quelli privi di beni materiali, ma quelli su cui nessuno poteva contare, coloro che non avevano nessuno disposto a garantire per loro, gli stessi, talmente inaffidabili, da non essere ammessi a testimoniare neanche nei tribunali. Mancare alla parola, tradire la fides, rinnegare un debito, producevano di per sé l’esclusione e la povertà, tanto la fiducia reciproca era considerata, teologicamente ed economicamente centrale. I debiti, dunque, si pagano e al momento la Grecia non è in grado di farlo.
Terzo: se tagli il ramo su cui sei seduto, cadi. E’ quello che stanno facendo i creditori della Grecia, Germaia, Francia e, in misura minore, l’Italia. Da tempo ormai si sa che quei debiti la Grecia sarebbe riuscita a pagarli solo in parte e in tempi lunghi, per cui, in qualche modo, i mercati, hanno già “scontato” questa possibilità, si sono cioè già aggiustati tenendo conto di questa evenienza. Questo vuol dire che una ristrutturazione del debito, un condono parziale o qualsiasi altra forma di attenuazione dei vincoli quantitativi e temporali non produrrebbe sull’economia europea conseguenze ingestibili. Cosa diversa è invece un’uscita improvvisa dall’Euro, un default di fatto incontrollato, una corsa generalizzata agli sportelli ed il panico diffuso. Nessuno, nessuno sa bene che cosa potrebbe capitare in questi casi.
Quarto: Tsipras e Varoufakis non sono stati all’altezza. Nonostante Varoufakis sia un esperto di strategia e decisioni, in questo caso ha giocato proprio male le sue carte, a tal punto da suscitare malcelate antipatie anche sul piano umano. Il sorridente Tsipras alla fine ha fatto lo stesso, inimicandosi praticamente tutti i protagonisti del negoziato; e se devi cercare di raggiungere un accordo, partendo da una posizione di grande debolezza, questa non è proprio una strategia vincente. Un misto di arroganza e impreparazione tecnica, da una parte, e di inflessibilità al limite dell’ideologia dall’altra, hanno fatto affievolire progressivamente le speranze di un accordo, riducendole, a tutt’oggi, ad un fievole lumicino.
La mossa finale dell’indizione del referendum ha fatto chiaramente capire che il premier greco non è all’altezza del compito che si è assunto. Con le elezioni egli ha assunto un “mandato”, una delega del tutto esplicita, per risolvere il problema della Grecia a nome del popolo greco. La retorica pseudo-democratica con cui giustifica l’aver gettato la spugna, non nasconde agli occhi dei più, che infatti in queste ore lo contestano in piazza duramente, il tradimento di questo mandato.
Quinto: la politica del Fondo Monetario Internazionale produce disastri. Gli accordi di Bretton Woods, nel 1944, danno vita, l’anno successivo, al FMI assegnandogli lo specifico ed esplicito compito di operare per il coordinamento economico a livello internazionale e per scongiurare il ripetersi di cicliche e sempre più gravi crisi finanziarie come quella del 1929. La realtà dei fatti sembra mostrare che la politica attuale del Fondo, invece che evitarle, le crisi le accentua. Nel caso presente, se è vero che la Grecia ha grandi colpe, cui abbiamo accennato più sopra, è anche vero che negli ultimi anni ha avviato un programma di riforme strutturale, che benché ancora insufficienti, ha comunque iniziato a produrre effetti: riduzione del deficit pubblico, del numero dei dipendenti pubblici, dei salari reali, innalzamento dell’età pensionabile. Una bella dose di medicina amara. Gran parte di queste misure, com’è naturale in questi casi, inizieranno a produrre benefici in misura superiori ai costi, solo nel medio-lungo periodo, ma se nel frattempo il Fondo continuerà ad esigere sempre di più, anche i sacrifici finora fatti si riveleranno inutili, creando un senso di frustrazione e di scoraggiamento in larghi strati della, già prostrata, cittadinanza ellenica.
Sesto e ultimo punto: gli stati non sono imprese. Gran parte dei resoconti di questi ultimi mesi hanno descritto il negoziato tra Atene e la Troika attraverso l’utilizzo delle categorie tipiche del diritto commerciale, dei contratti, degli obblighi, delle sanzioni, delle condizioni, etc., etc. Come se al tavolo sedessero non Stati e organismi internazionali, ma due imprese o due provati cittadini. Germania, Francia, Italia, Inghilterra, Grecia sono grandi stati, soggetti politici, membri della stessa grande e nobile Comunità Europea; il fatto che “riducano” il loro discorso pubblico a categorie ragionieristiche (con tutto il rispetto per la ragioneria e i ragionieri) fa capire quanto profondo sia il deficit di politica che oggi affligge l’Europa; quale livello abbia raggiunto l’involuzione dell’illuminato progetto europeo dei padri fondatori; quanto lo ius si sia avvicinato all’iniuria; quanto necessaria perciò sia la rifondazione del nostro vivere civile, come cittadini e comunità nazionali, sulle categorie a lungo dimenticate da politica ed economia di fraternità e gratuità.
Rispondere a questo stato di cose come propongono i vari egoismi regionalistici sarebbe l’errore più grande. Noi tutti abbiamo bisogno non di meno Europa, ma di più Europa, di una Europa più coraggiosa. C’è da augurarsi, dunque, che la politica, il governo della città comune, i nostri rappresentanti, trovino questo coraggio, abbandonino per un istante la logica calcolativa e si dimostrino capaci di visione, di prospettive ampie, di unità, di ricominciare a credere a quell’utopia concreta che ha posto le basi per il sogno di un’Europa unita, e per questo prospera, inclusiva e pacificata.