Per una strategia nazionale di rilancio delle aree interne
Sono aspre, affascinanti, lontane, inconfondibili, fragili e vuote. L'Italia scopre le aree interne. I riflettori si sono accesi su quelle zone più periferiche del Paese nel momento più difficile. Il terremoto dell'Italia centrale ha portato i media lì tra i borghi dell'Appennino. È lì che la fragilità si è manifestata più forte. Non conoscevamo un solo nome – salvo Amatrice, di cui eravamo abituati a eliminare la vocale iniziale e che comunque non avremmo saputo collocare su una carta geografica – di quei paesi appenninici. L'Italia dei mille campanili e dei mille borghi, degli oltre 8 mila comuni, non conosce che pochi grandi centri, i poli dei servizi e delle opportunità. Le grandi aree urbane insomma, che abbiamo sempre saputo essere luoghi dove lavorare nelle grandi aziende, creare impresa e innovazione, fare spesa nei centri commerciali, girovagare anche tra monumenti storici di importanza mondiale o, alla peggio, tra i negozi del centro tra il dedalo ristretto delle vie dello struscio.
Ma fuori? Oltre alle aree urbane, in questi giorni abbiamo imparato a conoscere le zone interne. Quelle che sono e forse resteranno "periferie rurali" molto simili e allo stesso tempo così diverse dalle "periferie urbane". Erano e sono entrambe da "rattoppare", da ricucire, per motivi e con obiettivi diversi. Erano e sono i luoghi dell'abbandono, da lasciare per una vita migliore. Dal Colle di Cadibona allo stretto di Messina per l'Appennino, dal Passo del Turchino alla Carnia per le Alpi. Non le conosciamo le aree interne del Paese. Il terremoto d'agosto ne ha mostrato una parte, oggi martoriata. Come dice sempre un bravo amministratore delle valli cuneesi, quelle aree le amano olandesi, tedeschi e svedesi, ma non abbastanza noi italiani. Noi non sappiamo quello che c'è al di là della montagna e della collina. E non è metaforico. Intendiamo tradizionalmente quei territori come parco divertimenti e zone ludiche. Vale per la città con i suoi centri commerciali, vale per Alpi e Appennino. Oggi come non mai usate per imprese e scalate, sciate e spa.
Un gioco che oggi un po' si è rotto. Le immagini in tv e sui social ci hanno mostrato i borghi andati giù, ci hanno mostrato chi vive lì e chi ha perso tutto. Poche però le immagini di stalle e campi, di agricoltura che si è fermata sotto il sisma. Quasi come se non fosse importante. Qualcuno ne parla, sui media, ma non abbastanza. Non abbastanza per far capire a chi guarda che quell'attività agricola, zootecnica o legata alla trasformazione alimentare è oggi e sarà sempre l'emblema delle aree interne del Paese. Assieme naturalmente alla capacità di accogliere e di generare nuove forme di turismo. Ce ne stavamo dimenticando. Che agricoltura e turismo fossero le colonne di un'Italia che va oltre i centri urbani. Nell'Abruzzo dove va in crisi il modello turistico adriatico, dove L'Aquila bellissima è ancora tutta un cantiere, emerge il turismo attorno ai borghi del Gran Sasso, anche qui visti prima di noi da imprenditori tedeschi come Daniel Khilgren, che ha investito milioni di euro nell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio, rilanciando quei luoghi interni e rimasti marginali.
Già, il margine. Non fosse per via degli stereotipi consolidati in decenni verrebbe da dire che non esiste. Invece le Alpi sono un margine geografico, gli Appennini un margine fatto a osso, senza la polpa, ci ricordano gli antropologi. Oggi proviamo a scalzarlo. Guardiamo oltre e puntiamo sulla vitalità di quelle aree che, in Abruzzo, Lazio, Marche dimostrano di essere il motore dell'Italia che vuole rinascere. Sono gli "spazi liberi", per dirla con Fabrizio Barca, economista già ministro della Coesione territoriale, che oggi hanno bisogno di una nuova attenzione. In realtà, il terremoto non c'entra. È da almeno quattro anni che Barca lavora sulle aree interne. Ha aperto anche una Strategia nazionale selezionando le prime 64 aree pilota, in cui portare 6 milioni per ciascuna di fondi europei per migliorare scuole, trasporti, assistenza sanitaria. E generare opportunità di sviluppo economico. Proprio là dove i poli dei servizi, le città sono più lontane. Più di mezz'ora in auto per raggiungere un ospedale e le scuole. Che grazie agli investimenti possono diventare modelli per un Paese che innova processi e strumenti.
Vi è però una parola chiave in queste aree interne che hanno subìto abbandono e oggi anche distruzione. È la comunità che si ritrova attorno al campanile, alla piazza, al borgo stesso posto là in cima (mentre sulle Alpi è agganciato al versante). La comunità è molto di più di un insieme di individui. Non sono uniti per caso. A cementarli tra le generazioni sono associazioni, feste, storie, leggende. Sono queste comunità che oggi dall'Appennino chiedono di non essere dimenticate, di ricostruire tutto com'era. Sono il motore di una nuova strategia che per troppi decenni il Paese non aveva costruito. I paesi colpiti dal sisma sono piccoli comuni dell'Appennino. E con i loro territori sono tra le aree individuate dal piano nazionale che dovrà essere strettamente collegato alla ricostruzione.
Tutto bene, tutto importante e positivo fin qui. Per sei decenni quelle aree interne e montane del Paese però si sono sentite abbandonate. Non si può non dire oggi. Chiedono di non essere dimenticate. Sanno bene, in particolare i sindaci, che per troppo tempo lo sono state, dimenticate. I tagli di bilancio ai comuni più piccoli si sono trasformati in carenza di servizi che nelle aree interne di Alpi e Appennino (e non solo) generano ulteriore abbandono e lontananza. La non attuazione della Legge sulla montagna del 1994, i tagli dei trasferimenti agli enti locali, la chiusura delle Comunità montane, la polarizzazione dei servizi fatta dalle grandi imprese di Stato. Segnali di abbandono. Ecco perché oggi gli appelli delle comunità colpite dal sisma al presidente della Repubblica fanno doppiamente riflettere. Valgono per un complesso futuro, ma anche per un irripetibile, inaccettabile passato. Presto per dire se il cambio di rotta imposto dalla Strategia nazionale aree interne, con 190 milioni di euro di dotazione da qui al 2018, sia quello giusto. Se anche non sarà la solita, raccomandata, abusata "ultima possibilità", "l'ultimo treno", di certo è l'ultima volta che lo Stato ha la possibilità di un riscatto con le comunità delle periferie geografiche. A volte sfiduciate. A volte arrabbiate. Ma di certo sempre capaci a rinascere facendo leva sulla loro capacità di essere comunità unite.
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