Per una società interculturale
Migrazione inarrestabile da e verso i quattro angoli del pianeta: sud, nord, est, ovest ormai fanno parte di un unico orizzonte planetario. Chi può dire oggi dove nel prossimo futuro ci saranno le migliori e più convenienti condizioni di vita? La crisi globale economica e finanziaria, con tutte le sue ramificazioni mafiose, che sta radicalizzando le disuguaglianze sociali: chi vivrà domani nella ricchezza e chi nella povertà? In nome della pura sopravvivenza molti sono costretti ad accettare ricatti che annullano la dignità della persona, ridotta spesso a merce di scambio.
Lo sappiamo, ci troviamo dentro un passaggio epocale, di cui però non riusciamo a delineare le prospettive, a individuare le categorie per esprimere ciò che viviamo. È una notte collettiva e culturale che può generare frustrazione, senso di fallimento, sofferenza, rabbia, violenza, distruzione nelle persone, nei rapporti, nelle relazioni sociali e tra gli stati.
Quale fede?
La prima risposta che Chiara Lubich ci propone, sull’esempio di sant’Agostino, è la fede: “In una situazione, per certi versi simile alla nostra, si è ritrovato un grande santo e dottore della Chiesa, Agostino di Ippona, che, di fronte al crollo dell’Impero Romano sotto la pressione delle migrazioni dei popoli del Nord e dell’Est, ha avuto la grazia e la lungimiranza di aiutare la coscienza cristiana a capire che lo sconvolgimento delle civiltà, che stava avvenendo sotto gli occhi di tutti i suoi contemporanei, non era la fine del (loro) mondo, ma la nascita di un mondo nuovo.
La sua era una visione che veniva dalla fede e dalla convinzione che Dio non è assente dalla storia. L’amore di Dio, infatti, è tale da saper convogliare ogni cosa al bene, lo dice lo stesso san Paolo: ‘Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio’ (Rm 8, 28). È ora – mi sembra – la stessa fede che deve sorreggere anche noi e guidarci nell’attuale situazione”.
La fede di cui parla Chiara, mi pare che non sia identificabile soltanto con la professione di un credo religioso. È anche un orientamento fondamentale dell’esistenza, un atteggiamento positivo di speranza nella vita e nell’essere umano, la condivisione dei grandi valori umani come la giustizia, la solidarietà, la pace, i diritti umani che fa di tutte le persone, credenti o no, innanzitutto fratelli dell’unica famiglia umana.
È una visione dell’umanità, delle relazioni a tutti i livelli, che pone come principio e fondamento dell’esistenza la fraternità. Prima di ogni riferimento religioso particolare, bisogna credere che la mia felicità personale dipenderà da come avrò vissuto la relazione con l’altro, dalla risposta che avrò dato ad una semplice domanda: chi è per me l’altro, chiunque esso sia, e chi voglio essere io per l’altro?
Prima della fede, c’è da chiedermi quale “spiritualità” io viva, quale spirito animi e orienti il mio modo di sentire, pensare, volere, decidere, in una parola, di vivere.
Se “individuale”, che mette al centro il “mio” bene, singolo o di gruppo, che tende ad avere “di più” dell’altro, ipotizzando addirittura che questa disuguaglianza sia voluta “dall’alto”, se non addirittura “da Dio” (quanti credenti, anche cristiani, continuano a pensare in questo modo); l’altro diventa così un concorrente, alias potenziale nemico, da cui difendermi o da ridurre in mio potere.
Oppure di “comunione”, che mette al centro il bene comune della famiglia umana, il riconoscimento che tutte le persone hanno lo stesso diritto di usare i beni di questa terra, che nessuno ha ricevuto “dall’alto” un “di più” di possibilità, che la felicità è una meta da raggiungere insieme nella fraternità e nella condivisione dei beni. Dice ancora Chiara: “Come si potrebbe, infatti, pensare l’unità e la fraternità nella società e nel mondo senza la visione di tutta l’umanità come una sola famiglia? E come vederla tale senza la presenza di un Padre per tutti?… Il Vangelo dice che egli conta persino i capelli del nostro capo (cf. Lc 12, 7), e il Corano, che ‘egli è più vicino a noi della vena giugulare’ (s. 15, 16)”.
La forza dell’amore
Oggi il mondo ha bisogno di un nuovo umanesimo (cristiano) che sappia parlare a tutti, che ritorni alla radice della stessa esperienza di fede per trovare un Dio, Padre, Amore che ha un solo desiderio: che gli uomini si amino tra loro. Per realizzare la fraternità con tutti occorre far proprio il desiderio di Dio e “vivere l’amore che batte in fondo ad ogni cuore umano. Esso, per i seguaci di Cristo, è quell’agape che è una partecipazione all’amore stesso che è in Dio, e per chi segue altre fedi religiose è un amore che discende da quella ‘regola d’oro’ che impreziosisce molte religioni e dice: ‘Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te’ (cf. Lc 6, 31), oppure: ‘Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te’ (cf. Tb 4, 15)… Amore che per le persone di altra cultura, senza un riferimento religioso, può voler dire filantropia, solidarietà, non violenza”.
C’è nelle parole di Chiara un evidente fondamento antropologico: l’amore identifica l’essere umano. Amare, quindi, non è qualcosa che si aggiunge all’identità come una virtù della quale si potrebbe anche fare a meno. No. Se l’uomo ama è, se non ama non è. Se ama costruisce la fraternità e afferma la sua identità, se non ama ferisce il tessuto sociale e sfigura il suo volto.
Ma quali sono le caratteristiche di questo amore che abita nel cuore di tutti? Chiara ce le spiega con grande semplicità e nitidezza, con quella “debolezza” che è il segno della verità: “Questo amore evangelico si indirizza a tutti, a tutti: al simpatico e all’antipatico, al bello e al brutto, a quello della mia patria e allo straniero, della mia o di un’altra cultura, della mia o di un’altra religione, amico o nemico che sia…
È un amore poi che spinge ad amare per primi, sempre, senza attendere d’essere amato, come ha fatto Gesù il quale, quando eravamo ancora peccatori e quindi non amanti, ha dato la vita per noi.
È un amore che considera l’altro come se stesso, che vede nel prossimo un altro se stesso. Diceva pure Gandhi: ‘Tu ed io siamo una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi’.
Quest’amore, poi, non è fatto solo di parole o di sentimenti, è concreto. Esige che ci si faccia uno con gli altri, che ‘si viva’ in certo modo ‘l’altro’ nelle sue sofferenze, nelle sue gioie, per capirlo, per poterlo servire e aiutare concretamente, efficacemente. Si tratta di piangere con chi piange e rallegrarsi con chi è nella gioia. Farsi uno… in modo da poter stabilire con tutti un vero, fraterno dialogo”.
Società interculturali
Dialogo, un’altra parola forte. E oggi spesso dimenticata. Nelle parole di Chiara c’è qualcosa di sconvolgente. Dopo aver spiegato in sintesi che cosa sia il dialogo, dice: “È stato scritto: ‘Conoscere la religione dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come lui lo vede, penetrare nel senso che ha per lui essere buddista, musulmano, indù…’. Non è questa una cosa semplice, esige il vuoto totale di noi, domanda di togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa per immedesimarsi con l’altro.
Si tratta di spostare momentaneamente persino ciò che possediamo di più bello e di più grande: la nostra stessa fede, le nostre stesse convinzioni, per essere di fronte all’altro niente, un ‘nulla d’amore’. Ci si mette così in posizione di imparare e si ha sempre da imparare realmente da tutti”.
Spostare tutto, persino la mia fede e le mie convinzioni, per essere un “nulla d’amore”. Tradotto in altri termini: se io cristiano voglio dialogare con un altro (credente o non credente che sia) devo spostare in quel momento il mio rapporto con Dio, devo farmi, mi si passi il termine, come uno che è “senza Dio”.
E arriviamo al cuore del discorso di Chiara: il passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale. “Se siamo animati da un tale amore, – continua – l’altro poi può manifestarsi, perché trova in noi chi lo accoglie; può donarsi, perché trova in noi chi lo ascolta. Veniamo allora a conoscere la sua fede, la sua cultura, il suo linguaggio; entriamo nel suo mondo, ci inculturiamo in qualche modo in esso e ne rimaniamo arricchiti. E con questo atteggiamento contribuiamo a far sì che le nostre società multiculturali diventino interculturali e cioè composte da culture aperte le une alle altre e in profondo dialogo d’amore tra esse”.
Su cosa può fondarsi la interculturalità? Sui “‘semi del Verbo’… che l’amore di Dio ha deposto in ogni religione” e su “quei valori semplicemente umani… che il Signore, creandoci, ha disseminato in ogni anima e in ogni cultura”. Questi semi e valori sono risvegliati nei nostri cuori da una presenza misteriosa: “lo Spirito Santo, che è sempre presente quando si ama”. Questo scambio di doni crea un clima di comunione nel quale “la verità piano piano si svela e ci si sente affratellati da essa”.
Religioni per la pace
“La fraternità vera, reale, sentita – continua Chiara – è, infatti, il frutto di quell’amore capace di farsi dialogo, rapporto, di quell’amore cioè che, lungi dal chiudersi orgogliosamente nel proprio recinto, sa aprirsi verso gli altri e collaborare con tutte le persone di buona volontà per costruire insieme l’unità e la pace nel mondo”.
Essenziale diventa il ruolo delle religioni, nella misura in cui esse, però, sono capaci di camminare insieme. Chiara stessa, grande protagonista, spesso nascosta, del dialogo interreligioso, si fa una domanda che non appare per nulla retorica: “Ma le religioni, anche nel loro insieme, possono essere partners nel cammino della pace?”.
Le tensioni presenti nel mondo, alimentate ad arte da chi vuole raggiungere obiettivi di predominio sui popoli, coinvolge purtroppo anche i credenti. Qualcuno dice che se si abolissero le religioni il mondo troverebbe la pace. Altri, pensando che il dialogo interreligioso sia superfluo e inutile, tentano di risuscitare atteggiamenti del passato “in difesa della (vera) fede”.
La verità è che la causa più profonda delle tensioni sociali da noi tutti sperimentate è “l’insopportabile sofferenza di fronte a un mondo ricco per un quinto e povero per quattro quinti, che ha generato e genera risentimenti covati negli animi da tempo, violenza e vendetta. Si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione di beni.
Ma, come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé, vanno mossi i cuori, vanno messi in comunione i cuori! E per questo occorre diffondere fra più gente possibile l’idea e la pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità universale. I fratelli sanno pensare ai fratelli, sanno come aiutarli, sanno condividere quanto hanno”.
Cosa fanno gli Stati?
Lo sguardo di Chiara, però, va oltre i confini delle religioni. Si allarga ai rapporti internazionali, fino a denunciare la passività degli Stati ad assumere decisioni che realmente vadano nella direzione del bene comune universale: “Da chi, se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali?
Le enormi risorse spirituali e morali, il contributo di idealità, di aspirazioni alla giustizia, l’impegno a favore dei più bisognosi, assieme a tutto il peso politico di milioni di credenti, che scaturiscono dal sentimento religioso, convogliati nel campo delle relazioni umane, potrebbero senz’altro tradursi in azioni tali da influire positivamente l’ordine internazionale.
Molto si sta facendo nel campo della solidarietà internazionale da parte delle organizzazioni non governative; ciò che manca è che gli Stati facciano proprie quelle scelte politiche ed economiche atte a costruire una comunità fraterna di popoli impegnata a realizzare la giustizia. Perché di fronte ad una strategia di morte e di odio, l’unica risposta valida è costruire la pace nella giustizia; ma senza fraternità non c’è pace. Solo la fraternità fra individui e popoli può assicurare un futuro di convivenza pacifica”.
Rileggendo queste parole, penso, per esempio, agli Stati europei che con fatica, e mille resistenze, (non) si muovono verso una vera Europa politica che sappia ripensare se stessa in modo nuovo, come promotrice di nuovi processi economici e industriali che rispondano alle reali esigenze dei popoli: acqua, cibo, medicine, istruzione ecc. per tutti.
Utopia, sogno o realtà?
Chiara riporta una bellissima frase di Martin Luther King: “Ho il sogno che un giorno gli uomini… si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli… e che la fraternità… diventerà l’ordine del giorno di un uomo di affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo”[1].
Solo un sogno, addirittura un’utopia che attraversa i secoli per rimanere comunque inascoltata, una (inutile) voce nel deserto? Se così fosse, poveri noi.
“Ma chi ha ideato e portato questa verità come dono essenziale all’umanità – continua Chiara -, è stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: ‘Padre, che tutti siano una cosa sola’ (cf. Gv 17, 21)”.
È su questa preghiera che Chiara fonda la sua fede e fiducia che la fraternità, piano di Dio sull’umanità, si realizzerà. Perché è la preghiera di un Dio che ha deciso per sempre di abitare “in mezzo a noi”, di rendersi presente lì dove due o più persone si aprono l’una all’altra “nel dialogo fatto di benevolenza umana, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia”.
Ciò che è impossibile agli uomini isolati tra loro, sembra possibile “a gente che ha fatto dell’amore scambievole, della comprensione reciproca, dell’unità, il movente essenziale della propria vita”. Perché la presenza di Dio in mezzo a noi è “il grande frutto del nostro amore scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri sforzi per portare ovunque l’unità e la fratellanza universale… quale garanzia migliore della presenza di Dio, quale possibilità superiore può esistere per coloro che vogliono essere strumenti di fraternità e di pace?”.