Per una politica industriale di pace
Lo scorso 31 maggio 2023, ante vigilia della festa della Repubblica, un lungo comunicato della presidenza del consiglio, dedicato alla promozione del made in Italy, rendeva nota la decisione di rimuovere le «limitazioni all’esportazione verso l’Arabia Saudita di alcuni materiali di armamento decretate tra il 2019 e il 2020, in conformità con atti di indirizzo del Parlamento per “l’attenuarsi del rischio” dell’utilizzo di tali ordigni nel conflitto in corso in Yemen fin dal 2015[1].
Una guerra dimentica ma ben nota all’organizzazione delle Nazioni unite che l’ha definita, prima del conflitto in Ucraina e ora in Terra Santa, il più grave disastro umanitario in corso con effetti dirompenti sulla popolazione civile tra cui il divampare di un’epidemia di colera.
Lo stop dell’invio di armi pesanti in Arabia Saudita è stata una delle poche vittorie della società civile organizzata che ha chiesto, nel caso in esame, l’applicazione della legge 185/90 che vieta di vendere e trasferire armi ai Paesi in guerra e/o che violano i diritti umani. Una declinazione concreta della Costituzione, che ripudia la guerra, conquistata anche grazie a quei lavoratori che hanno obiettato alla produzione bellica[2].
In un recente convegno che ha visto la presenza dell’associazione delle imprese della difesa e dello spazio, dei vertici militari e di esponenti del governo è stata esplicitata la volontà di procedere ad una robusta riforma di tale normativa che appare un ostacolo alla competitività del nostro sistema industriale. In quella sede è emerso anche il fastidio verso la retorica delle banche etiche con un implicito riconoscimento degli effetti della campagna del boicottaggio delle banche armate. Con un comunicato del 3 agosto il governo ha così puntualmente fatto sapere di aver presentato «un disegno di legge che introduce modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185, che regola il controllo delle movimentazioni internazionali del materiale di armamento»[3].
Sorprende tanta determinazione se. come sappiamo lo stesso testo della legge 185 del 90 ha permesso negli anni di aggirare i vincoli che pone in caso di accordi di cooperazione militare con i diversi Paesi (ne esistono almeno 50).
Pur con tutti i limiti, quella legge, ora sotto attacco, prevede un fondo da destinare alla riconversione industriale delle aziende belliche ma che non è mai stato alimentato anche se ad esempio l’università cattolica di Milano ha promosso per un certo periodo un centro di ricerca legato a tale finalità.
Ora la maggior parte del mondo accademico fa parte del comitato scientifico della Fondazione Med-Or nata nel 2021 per iniziativa di Leonardo Spa con l’obiettivo di fare sistema per rafforzare i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (“Med”) e del Medio ed Estremo Oriente (“Or”).
Leonardo è il nome nuovo di Finmeccanica, la società controllata per il 30,204% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che negli ultimi decenni ha ceduto settori strategici e di avanguardia tecnologica in campo civile per concentrarsi nel settore della Difesa con particolare attenzione alla filiera statunitense.
Ho avuto modo di parlarne lungamente con Stefano Zara[4], ex presidente di Confindustria Genova, che negli anni 90 si è battuto inutilmente contro tale scelta che rientra nel quadro del declino industriale del nostro Paese ben descritto dal sociologo Luciano Gallino. A determinare quella strategia, come mi è stato confermato da Zara, è stata la consulenza della società Mc Kinsey che ritroviamo, ad esempio, oggi, tra gli artefici di Saudi Vision 2030, cioè del piano che vuole dare centralità strategica alla monarchia saudita che promuove, tra l’altro, accanto all’Expo 2030, conquistato facilmente sbaragliando la concorrenza italiana, una delle maggiori fiere di armi pesanti a livello mondiale, il World Defense Show in programmazione dal 5 al 7 febbraio 2024.
Sono questi il luoghi ambiti per coltivare rapporti, alleanze e transazioni tra gli esponenti del complesso militare industriale dei diversi Paesi. Secondo un principio ripetuto spesso anche in sede istituzionale si afferma che la nostra assenza, come Paese produttore, in questo campo verrebbe comunque ricoperta da altri soggetti che ne guadagnerebbero in termini non solo di profitti ma soprattutto di influenza geopolitica. La competizione è particolarmente accesa con la Francia come dimostra il caso delle forniture all’Egitto di al Sisi.
È in questo quadro ben preciso che si colloca nel marzo 2023 ad opera del il ministro della Difesa Guido Crosetto la costituzione del “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa” nella convinzione che «il “Sistema Difesa” rappresenta uno strumento di politica estera nonché un formidabile volano di crescita per il Paese»[5].
Come ha messo recentemente in evidenza anche Romano Prodi, in Europa «siamo arrivati all’assurdo che, pur avendo raggiunto una spesa di 480 miliardi, quindi oltre la metà degli Stati Uniti e ben oltre i 292 miliardi della Cina, la capacità militare europea viene ritenuta fragilissima, in quanto frammentata e senza una vera strategia comune sotto l’aspetto produttivo e di efficacia in caso di conflitto».
Crescono così i profitti delle imprese senza neanche una strategia comune che dovrebbe portare ad una razionalizzazione e diminuzione di costi.
Un recentissimo studio commissionato da Greenpeace, Arming Europe, ha messo in evidenza il fatto che « un miliardo ( cioè 1.000 milioni) di euro spesi per l’acquisto di armi generano un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro, mentre la stessa cifra investita per istruzione, welfare e protezione ambientale avrebbe un effetto quasi doppio. Uno scarto ancora maggiore si registra nell’impatto occupazionale: i 3.000 nuovi posti di lavoro creati dalla spesa per le armi salirebbero a quasi 14.000 se la stessa cifra fosse investita nel settore dell’educazione, a più di 12.000 se investita in sanità e a quasi 10.000 nella protezione ambientale».
Non sono numeri contestati da osservatori intelligenti come ad esempio Federico Rampini che in linea teorica ammette l’importanza della spesa pubblica destinata ad asili nido, scuole o ospedali, salvo poi porre la domanda sul ruolo che si vuole esercitare in un mondo dominato da potenze “carnivore”, cioè determinate dalla filiera delle armi.
Non sorprende perciò la dichiarazione congiunta dei ministri della difesa dell’Unione Europea, riuniti il 14 novembre nel board dell’Agenzia Europea della Difesa, a favore dell’inclusione del settore della produzione di armi tra gli investimenti considerati sostenibili dall’Unione Europea.
La conversione progressiva al sistema della guerra ha bisogno poi di semplificazioni utilizzabili sui media.
Faccio il caso dell’intervista abituale fatta, ad esempio. nel Sulcis nei dintorni della Rwm Italia, cioè della fabbrica di missili e bombe destinate in Arabia Saudita dove “la gente” indistinta dice che occorre prima di tutto salvare il lavoro in una zona che vive da tempo una grave crisi occupazionale
La vera notizia è, invece. un’altra e cioè che nel caso in questione parliamo di un territorio, quello del Sulcis Iglesiente, dove non si è voluto investire con politiche economiche e industriali efficaci nonostante le risorse del piano Sulcis a cui ora di aggiungono i soldi del Just transintion fund destinato in maniera specifica alle aree di difficile transizione energetica individuate nel nostro Paese a Taranto e nella zona del Sulcis[6].
Se come afferma il Forum Diseguaglianze e l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, due grandi bacini di competenze messe assieme da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini, le imprese controllate dal capitale pubblico devono perseguire finalità di utilità sociale ben oltre il dettato dell’articolo 41 che disciplina comunque in tal senso l’iniziativa economica privata, ne consegue che Leonardo dovrebbe promuovere una Fondazione tipo Med Or per una reale transizione ecologica di questi territori che avrebbe effetti positivi sull’ambiente e la qualità del lavoro nella terza regione italiana per estensione ma abitata da un numero di abitanti che corrisponde a metà della popolazione di Roma.
In assenza di questa volontà di progettualità politica, la stessa rete di associazioni che lotta per bloccare la produzione e l’invio di armi destinate ai luoghi di conflitto ha promosso un marchio registrato a livello internazionale ( War free) che collega le attività produttive impegnate ad essere libere dalla guerra.
Conosco già le critiche sui criteri di notiziabilità di questo fatto al di fuori delle buone pratiche di carattere marginale. Eppure, anche per il collegamento operativo esistente con pezzi di società civile in Germania, sede della multinazionale che controlla l’industria di bombe, l’esperienza di War free si collega ai lavoratori che hanno portato alla legge 185 del 1990 e ai portuali che, oggi, in numerose città europee hanno deciso di non prestare la propria attività nel lavoro di carico destinato alla filiera mondiale delle armi.
Non è un discorso nuovo in Italia, dove i metalmeccanici della Flm espressero negli anni 80 con Alberto Tridente un loro rappresentante nel Parlamento europeo a partire dalle istanze di riconversione dell’industria bellica come espressione di democrazia economica ( cosa, come e per chi produrre). Non è un discorso nuovo per il sindacato, ma solo rimasto sospeso nel progressivo sbilanciamento dei poteri che si è verificato a livello mondiale. Ma, per non essere velleitari, è ovvio che occorre fare i conti con la realtà e ad esempio rispondere con proposte fondate e ragionevoli al progetto città delle armi avanzato da Leonardo per il futuro di Torino con la progressiva riduzione di Stellantis.
Proprio dal mondo della produzione metalmeccanica arrivano segnali in controtendenza di democrazia economica in azione come nel caso della Gkn di Firenze che non riguarda il settore bellico ma dimostra la pretesa dei lavoratori di elaborare con il sostegno reale della ricerca universitaria soluzioni alternative alla liquidazione della loro attività decisa dai vertici di una remota società finanziaria di fronte alla quale la politica appare di solito incapace di reagire. In quella stessa città lo storico salvataggio della Pignone avvenne, grazie alla pressione politica di Giorgio La Pira, per intervento della mano pubblica affidata ad Enrico Mattei ma su progetti di riconversione elaborati dalle stesse maestranze.
[1] «Un’attenuazione altrettanto significativa del rischio di uso improprio di bombe d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili».https://www.governo.it/it/articolo/consiglio-dei-ministri-n-37/22766
[2] La 185 all’epoca fu una norma all’avanguardia, poi seguita da una analoga Posizione comune europea del 2008 e e, nel 2013, dal Trattato sul commercio delle armi
[3] https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-46/23370
[4] https://www.cittanuova.it/italia-alle-origini-della-crisi-industriale/
[5] https://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/Costituito-il-Comitato-per-lo-sviluppo-e-la-valorizzazione-della-cultura-della-Difesa.aspx
[6] https://www.jtf.gov.it/