Per una nuova idea di unità del Paese
In Italia esiste una tensione irrisolta tra Nord e Sud. Ne abbiamo parlato con lo storico Filippo Sbrana, autore del libro “Nord contro Sud. La grande frattura dell’Italia repubblicana” Carocci editore 2023, per maturare uno sguardo sul dibattito politico attuale. Sbrana è professore di Storia economica all’Università per Stranieri di Perugia.
Da cosa ha origine questo conflitto latente che mette in crisi l’unità del Paese?
È una vicenda complessa, che inizia negli anni Settanta con la crisi economica che segna in profondità l’Italia dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Le conseguenze sull’apparato produttivo del Paese sono rilevanti: al Sud vengono colpite le aziende che erano state create grazie all’intervento dello Stato, mentre nel Settentrione entra in affanno la grande fabbrica fordista. Questo favorisce un atteggiamento di ripiegamento sui propri problemi da parte dei cittadini del Nord, non pochi dei quali perdono il lavoro, e una valutazione negativa dell’azione pubblica del Mezzogiorno.
Altro elemento importante negli anni Ottanta è l’indebolirsi dei grandi soggetti collettivi che avevano guidato l’Italia fino a quel momento. Penso ai partiti politici, sempre più autoreferenziali. Ai sindacati, che dopo la marcia dei 40 mila, a Torino, non hanno più la stessa presa sul movimento operaio. E anche alla Chiesa, per via della crescente secolarizzazione.
Un cambiamento epocale…
Entrano in crisi organismi che favorivano l’identificazione dei singoli col Paese e il suo bene comune, portando gli italiani a collocarsi in un “Noi” più grande, nel quale aveva uno spazio importante lo sviluppo del Sud. Il logoramento di questi soggetti contribuì alla rinuncia all’impegno collettivo in una stagione segnata dalla crescita dell’individualismo e del consumismo.
Quale è stato il ruolo delle Regioni?
Sono enti creati in quel periodo, nel 1970. Dopo alcuni anni sono diventati interlocutori importanti per i cittadini e le imprese. In una stagione segnata dalle difficoltà citate ma anche dalla crisi dello Stato e della sua credibilità – si pensi allo scandalo Lockheed, alle dimissioni del presidente Leone, alla P2 – tanti cominciano a pensare alla dimensione locale come ambito privilegiato in cui identificarsi.
Entra in discussione il disegno d’insieme sul Paese costruito dopo la guerra che individuava nel sostegno al Mezzogiorno un interesse per tutti. Questa visione si logora e al Nord ci si concentra sul proprio territorio, mentre cresce la critica all’azione economica dello Stato al Sud, segnata peraltro da una crescente inefficienza.
Alle elezioni politiche del 1992 la Lega di Bossi ottiene successo e in due anni si consuma un duplice passaggio, dalla prima alla seconda Repubblica e dalla questione meridionale a quella settentrionale.
L’intervento straordinario nel Mezzogiorno viene abolito, nonostante i problemi del Sud non siano stati risolti. Da questo momento la sfida per il Paese diventa il sostegno alle regioni più sviluppate del Nord. Oggi, a distanza di 30 anni, i dati attestano che abbiamo registrato un notevole peggioramento della performance economica di tutte le regioni italiane (incluse quelle settentrionali), con una crescita del PIL molto più debole del resto d’Europa.
La Cassa per il Mezzogiorno è passata, invece, nell’immaginario comune come un carrozzone clientelare assistenzialistico…
Bisogna evitare giudizi semplificati. La Cassa del Mezzogiorno è stata creata nel 1950, quando il Paese era guidato da Alcide de Gasperi. Nei primi 20 anni della sua storia ha svolto un’azione molto importante per lo sviluppo, nel settore agricolo, in quello industriale e nelle infrastrutture. Lo stesso si può dire in generale per l’intervento straordinario al Sud negli anni 50 e 60, ad esempio per le aziende a partecipazione statale. Non manca qualche elemento di inefficienza, ma in questi due decenni lo sviluppo del Mezzogiorno in termini di PIL pro-capite è rilevante e contribuisce a quello che viene chiamato il miracolo economico italiano. Tutt’altro che un carrozzone clientelare, ma un organismo tecnico con una visione chiara sui bisogni dell’area più arretrata.
Quando sono iniziati i problemi?
Dalla metà degli anni 70, a causa della crisi energetica, dell’influenza negativa del potere politico e del ruolo assunto dalle neonate regioni nella gestione della Cassa. Nuovi organismi che non hanno le competenze tecniche necessarie per partecipare al governo della Cassa (è un problema che vediamo ora nell’attuazione del PNRR da parte di alcuni enti locali) e tendono spesso a piegare le scelte ad interessi di carattere localistico se non clientelare. Negli anni 80, poi, viene ad esaurirsi il disegno strategico che aveva portato alla nascita dell’intervento straordinario. Da quel momento in poi il Paese soffre a lungo la mancanza di una rinnovata progettualità sul futuro del Mezzogiorno, sia in termini di politica economica, sia di logoramento nei rapporti fra le due parti dell’Italia.
È centrale, in questa legislatura, il progetto di autonomia differenziata proposta dalla Lega che suscita allarme da più parti. Cosa ne pensa?
È un progetto che suscita molta preoccupazione. Le 3 regioni finora coinvolte (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) hanno chiesto poteri su molte materie: sanità, scuola, infrastrutture, difesa del suolo, ambiente, rifiuti, lavoro, immigrazione, beni culturali, energia. Si tratterebbe di una riforma rilevante, che non è stata ben ponderata in termini di efficacia, come ha fatto notare autorevolmente anche la Banca d’Italia. Per nessuna delle politiche richiamate è stata fatta un’analisi in termini di efficienza del nuovo assetto. Siamo sicuri che questa parcellizzazione dei poteri, peraltro diversi da regione a regione visto che parliamo di autonomia differenziata, favorirebbe una buona gestione?
L’economista Gianfranco Viesti parla di una secessione dei ricchi…
È una questione seria la disparità tra le regioni più ricche e quelle più povere. Cosa succederà se ciascuna regione potrà decidere, ad esempio, i salari dei propri sanitari? I territori più ricchi attrarrebbero i migliori specialisti con stipendi più alti, mentre gli altri si dovrebbero accontentare dei professionisti meno qualificati. Per non dire del tema delle risorse. Le regioni di cui parliamo hanno un reddito pro capite più alto di gran parte del Paese. La loro richiesta di maggiori competenze si lega a quella di trattenere nel proprio territorio una quota del gettito fiscale superiore a quella attuale. Quando c’è stata una sorta di campagna referendaria sul tema in Veneto e Lombardia si è molto insistito sul punto. Forse a questi territori converrebbe, ma all’Italia?
L’autonomia differenziata non mi sembra la via di giusta da seguire. Tuttavia, il dibattito su questo tema può essere l’occasione per rilanciare una riflessione sul nostro Paese. Come detto, negli ultimi anni i risultati economici di tutte le regioni italiane sono stati insoddisfacenti e tutte si sono impoverite rispetto al resto d’Europa. Possiamo ripensare una strategia nuova per il Sud – dove peraltro non mancano significative eccellenze – ricordando che il sostegno alle aree meno sviluppate non risponde solo ad una esigenza di equità, ma serve a favorire lo sviluppo complessivo del Paese.
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