Per un giornalismo di pace

I giornali italiani sembrano spesso preferire l’opinionismo più che la cronaca. Ma un modo di raccontare “sensazionalista” eccita nei lettori sentimenti di odio e di rivalsa.
(Foto AP/Vadim Ghirda)

I giornali italiani sulla guerra tra Israele e Hamas, piuttosto che aiutare i lettori a comprendere le ragioni del conflitto, spesso tentano di orientare l’opinione pubblica secondo la propria linea editoriale. Questo si nota nei titoli adottati all’indomani dell’assalto di Hamas.

«Fermiamo le bestie di Hamas», Libero; «Forza Israele», Il Giornale che nel sommario spiega: «Palestinesi come i nazisti: caccia all’ebreo porta a porta». La Verità la butta in politica interna e associa Hamas alla sinistra italiana: «Gli amici della sinistra distruggono Israele». La stampa meno schierata gioca sul dato di cronaca. «Attacco a Israele, è guerra» titola il Corriere della sera, «Israele colpito al cuore» scrive La Repubblica, «Guerra in Israele. Il mondo trema» incalza L’Unità, «Israele sotto attacco» spiega Il Messaggero, «Israele in ostaggio» osserva La stampa, «La guerra che cambierà Israele e il Medio oriente» annota Domani, mentre per Il fatto quotidiano è «La guerra mondiale a rate: ora tocca a Israele e Hamas». Avvenire non ha dubbi: «Ancora guerra altra morte».

Dall’analisi degli articoli e dei commenti emerge una stampa schierata in massima parte a favore di Israele. Titoli taglienti, forti, politicamente scorretti e opinabili sul piano umano in certi casi. Sembra che ragioni di politica interna e di schieramento inducano più alla polarizzazione delle idee che allo sforzo di analisi e contestualizzazione.

Anche quando voci autorevoli, come il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, cercano di ricostruire la realtà inquadrandola nel contesto storico, le voci critiche e dissonanti sono molteplici. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha sentito la necessità di intervenire raccomandando «l’importanza di raccontare i fatti delle guerre in atto senza censure, ma con umanità e professionalità, evitando di cadere nello show dell’orrore».

«Non occorrono aggettivi ad effetto o immagini che spettacolarizzano il dolore», ha sottolineato in una nota del 16 ottobre. «Le norme deontologiche dei giornalisti indicano regole precise: verifica delle fonti, verità sostanziale dei fatti, nei limiti del possibile e delle fonti, e continenza nel linguaggio e nell’uso delle immagini».

La realtà sembra un’altra. «La tendenza dei giornali italiani – scrive Elettra Bernacchini sul sito dell’associazione Professione Reporter, il cui scopo, si legge nell’atto costitutivo, è diffondere e rafforzare il giornalismo come attività professionale volta a informare correttamente i cittadini – è fare opinionismo più che cronaca, anche in tema di esteri, e di praticare lo storytelling sensazionalista».

Manca alla stampa nostrana l’atteggiamento necessario per suscitare nel lettore e nel cittadino atteggiamenti di consapevolezza critica. Non si tratta di parteggiare per gli uni o per gli altri, ma di adottare comportamenti di grande onestà intellettuale che evitino di fomentare sentimenti di odio e di rivalsa.

Nei social è ancora peggio. Andrew Stroehlein, media director europeo di Human Rights Watch, osserva che «la proliferazione online di faziosi a margine di ogni conflitto forse non è una novità, ma di certo non aiuta. Può dare l’impressione che l’opinione pubblica mondiale sia più assetata di sangue di quanto non sia in realtà, che il mondo accetti quanto le persone di potere dicono vada fatto, senza alternative. Tra le terribili argomentazioni di questi tifosi c’è il fatto che non tutti i bambini sono uguali, che le atrocità possono essere giustificate quando a commetterle è la ‘nostra parte’. L’umanità diventa una condizione facoltativa, è riconosciuta in base a chi uccide e all’appartenenza delle vittime».

Occorre, insomma, entrare nel conflitto per cogliere la dimensione della tragedia per evitare atteggiamenti di vendetta. A proposito de La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, pubblicato sul Corriere della sera del 29 settembre 2001, Tiziano Terzani osservava: «L’11 settembre è stato l’occasione di svegliare ed aizzare il cane che è in ognuno di noi. Il punto centrale della risposta della Oriana è non solo di negare le ragioni del ‘nemico’, ma di negargli la sua umanità, che è il segreto di tutte le guerre».

Ragion per cui Johan Galtung, sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo e del Journal of peace research, ha sempre sostenuto la necessità di un giornalismo di pace, un giornalismo capace, cioè, di contribuire alla distensione degli animi e alla risoluzione dei conflitti.

«Ci vuole coraggio, un coraggio razionale – scriveva Igino Giordani nel libro L’inutilità della guerra – a sostenere la pace contro le orge della propaganda bellica, contro quei fenomeni di ossessione collettiva prodotti dalla retorica».

Un sondaggio Ipsos, pubblicato lo scorso 4 novembre, dice che il 64 per cento degli italiani è abbastanza informato o conosce in maniera approfondita la questione, ma c’è un 36 per cento che ne sa poco o nulla. Tuttavia il 73 per cento degli intervistati vorrebbe che l’Italia si adoperasse per una mediazione che eviti il disastro. Il segnale non andrebbe trascurato da media che guardano alla pace.

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