Per la pace tra Israele e Gaza serve la profezia
Continuiamo l'analisi del conflitto israelo-palestinese con Pasquale Ferrara, segretario generale dell'Istituto universitario europeo di Firenze. Accanto agli scenari internazionali e ai rapporti di forza interni, entriamo nel quadro politico della regione mediorientale e diamo una lettura del gesto di papa Francesco dello scorso otto giugno.
Dottor Ferrara, Hamas ha chiesto una tregua per qualche ora, ma nei giorni scorsi le fonti militari di entrambe le fazioni parlavano di missili provenienti da Libano e Siria. Il conflitto rischia di estendersi?
«Il rischio c'è sempre. In un'area già fortemente destabilizzata come quella mediorientale, ogni moto critico può far precipitare la situazione. Per quanto riguarda il Libano non credo che Hezbollah abbia interesse a provocare Israele. Il Paese ha raggiunto un equilibrio molto delicato grazie alla missione Unifiller ed è difficile ipotizzare che possa pianificare attacchi come quelli del luglio 2006, quando la reazione di Israele fu fortissima. Non ci sono possibilità di vittorie militari per quell'area e tanto meno che forze come Hezbollah e Hamas possano aspirare ad una vittoria armata. Stiamo vedendo però in Iraq cosa può accadere quando ci si trova in una situazione di forte conflittualità con istituzioni molto deboli».
C'è da temere una recrudiscenza di contrapposizioni anche di tipo religioso?
«Le forze dell'islamismo violento contano molto su istituzioni deboli per mettere in piedi un'operazione, possiamo dire di "franchising della lotta" esportandola su più fronti e a loro vantaggio in vista di un'unificazione dei conflitti e di una destabilizzazione generale. Ma questa è una carta da non offrire. Gli inviti alla moderazione che giungono da più parti della comunità internazionale hanno sullo sfondo questa grossa preoccupazione. Ci troviamo di fronte ad una regione e ad una situazione che sembrano sfuggire a tutti i parametri di normale cooperazione tra gli stati, senza poter offire alcuna garanzia sotto il profilo della sicurezza. Nessuno degli attori in questa regione si può sentire tranquillo. Stiamo parlando di un conflitto tra uno stato e un'entità che statale non è, come Hamas e Hezbollah, e poi spingendoci più in là possiamo dire lo stesso dell'Afghanistan e dei talebani. I conflitti in questo momento poi non sono conflitti tradizionali, ma sono conflitti tra attori con capacità imprevedibili sotto molti punti di vista».
L'otto giugno papa Francesco ha tentato di offire un percorso di pace tra Israele e Palestina. Vista la violenza degli ultimi giorni, questo gesto è sembrato vano. Come valuta l'iniziativa di Bergoglio a posteriori?
«Il papa ha cercato di cambiare registro rispetto ai tavoli diplomatici. Il punto è che bisogna ammettere il fallimento della politica internazionale. Ha fallito dalla conferenza di Madrid nei primi anni '90, al processo di Oslo, alla Road map: tutto si è arenato o chiaramente non ha portato a risultati di rilievo».
Il papa ha un altro approccio al problema perché, per lui, la pace nel mondo nasce dagli spiriti e quindi ha cambiato totalmente prospettiva. Se la politica ha fallito allora partiamo dalle dimensioni ultime, si sarà detto. L'idea della preghiera comune serviva a toccare le corde più profonde dell'umanità coinvolta in questo conflitto e a suo modo anche questo è un approccio politico. Prima di mettere sul tavolo questioni spinose, come ad esempio i confini, la sicurezza, i rifugiati (tutte questioni drammatiche), Bergoglio ha cercato di capire se c'è una disposizione fondamentalmente favorevole alla pace oppure no. Il papa riporta la questione del conflitto ai fondamentali e quindi ha un valore inestimabile il suo gesto. Certo non è un approccio che può portare risultati nel breve periodo, ma nel lungo periodo sì, perchè è un approccio di tipo profetico e non è detto che la profezia non abbia il suo spazio».