Per la Fiat una scommessa ecologica
Quando un’azienda come la Fiat annuncia chiusura di fabbriche e 8500 lavoratori in esubero, l’ansia di migliaia di famiglie a cui si sottrae un lavoro sicuro fa ammutolire chi inneggia al libero mercato come giustiziere dell’inefficienza, e costringe ad ammettere che, a volte, il deprecato intervento dello stato può essere utile. Intervento sì, ma in quale direzione? L’unico che ha avuto il coraggio di scagliarsi contro il primo provvedimento a cui si fa ricorso in questi casi – la cassa integrazione guadagni senza prospettive -, è stato il Premio Nobel 2000 per l’Economia James J. Heckmann. Egli ha fatto presente che le risorse (a fondo perduto) che il governo potrebbe essere indotto ad utilizzare per salvare la Fiat, aiuterebbero gli azionisti, i dipendenti Fiat e quelli delle grandi aziende che lavorano per essa, ma lascerebbero senza alcun aiuto i moltissimi occupati delle piccole aziende artigiane dell’indotto Fiat, le quali sarebbero obbligate a trovare clienti altrove o a chiudere. Heckmann suggeriva di aiutare queste piccole aziende a trovarsi clienti all’estero. Si dovrà pensare anche alle necessità dei lavoratori non tutelati, ma non è facile in queste situazioni suggerire strategie complessive. È importante però non confondere gli interessi della Fiat, che diventano pubblici solo quando il gruppo torinese è in perdita, con gli interessi della comunità nazionale. La crisi attuale nasce dalle scelte dell’ultimo decennio della famiglia Agnelli e degli altri grandi azionisti Fiat, che si sono orientati ad un management più finanziario che industriale, perdendo così l’apporto di uomini che ne avevano ideato le precedenti scelte produttive. Inoltre la Fiat ha deciso di impegnare nella chimica, nell’energia e nella grande distribuzione risorse che avrebbe potuto dedicare all’ideazione di vetture ecologiche di qualità e di basso consumo, come hanno fatto le grandi case giapponesi e tedesche, oggi vincenti. A quanto si sa, l’unico settore di produzione di vetture Fiat ecologiche riguarda le vetture a metano, non certo innovative come le “ibride” delle case giapponesi, che, accanto al motore a benzina, hanno anche un generatore-motore elettrico, in grado di recuperare energia nelle frenate e azzerare i consumi quando si è in coda, arrivando così a dimezzare i consumi complessivi. Se l’intento del governo italiano è quello di rivitalizzare senza sprechi l’industria dell’automobile, si potrebbe suggerire un provvedimento di “rottamazione ecologica”, consistente nell’azzerare l’Iva sull’acquisto di vetture a metano o con consumo dimezzato rispetto allo standard del mezzo rottamato. La Fiat, a meno che non stabilisca accordi con chi possiede queste tecnologie, non avrebbe nei primi anni vantaggi dalla vendita di macchine “ibride”, mentre ne potrebbe avere di notevoli dalle vetture a metano, se nel frattempo lo stato italiano finanziasse la costruzione di una rete di distribuzione metano molto più capillare della attuale. In questo caso si tratterebbe di denari pubblici spesi bene, perché orientati ad una riconversione produttiva che giustificherebbe la cassa integrazione speciale, e perché ridurrebbe la dipendenza del nostro paese dalle importazioni di petrolio. Quel petrolio la cui contesa sta sempre alla radice dei conflitti degli ultimi decenni, compreso quello che purtroppo si sta preparando.