Per equità, libertà e magari anche per cassa!
Forse nell’avanzare una complessa proposta di riforma in 16 articoli il presidente dell’INPS Tito Boeri è stato inopportuno nei modi e irriguardoso verso il governo. Ma cerchiamo di andare alla sostanza, che mi pare invece del tutto lodevole. Non potendo entrare nei troppi aspetti della proposta e dato che sull’istituzione di un trattamento contro la povertà degli ultracinquantacinquenni ha già parlato un precedente articolo di Carlo Cefaloni, mi limito a tre osservazioni sul versante pensionistico.
In primo luogo, incrociando le informazioni disponibili l’Inps ha ricostruito la situazione economica dei milioni di italiani che beneficiano di un’integrazione della pensione, un meccanismo pensato per garantire un minimo vitale ai percettori di pensioni basse. Ne è risultato che un sesto di queste integrazioni – per un totale di ben 5 miliardi di euro annui – va a beneficio di famiglie che si collocano tra le 30% più benestanti in termini di Isee (l’indicatore della condizione economica delle famiglie che tiene conto anche del patrimonio). Una parziale e progressiva riduzione di queste erogazioni che permetterebbe di risparmiare almeno 1,2 miliardi l’anno, come suggerito da Boeri, vi sembra ingiustificata o invece doverosa?
Secondo: nel 2011 il problema del Presidente del consiglio Monti e del ministro del Lavoro Fornero era che i meccanismi di calcolo di calcolo delle pensioni favorivano troppo chi le pensioni le incassa, e quindi sfavorivano troppo il resto degli italiani (a cui in un modo o nell’altro tocca l’onere di pagargliele). Ma l’innalzamento dell’età pensionabile che fu deciso in quei giorni drammatici non è l’unica soluzione possibile. Per l’equilibrio finanziario dell’Inps una soluzione equivalente è lasciar andare la gente in pensione prima, ma con un assegno mensile ridotto.
Molte persone – alcune le conosco – lo preferirebbero, chi per potersi dedicare ai nipoti, chi per dedicarsi ad attività di volontariato, chi per ridurre lo stress, e così via. Perché non accontentarli, anziché farne dei forzati del lavoro? Con l’ulteriore vantaggio di facilitare l’accesso al lavoro dei giovani, che si sono trovati le porte ancora più chiuse a causa del brusco rinvio dei pensionamenti.
Infine, c’è il caso di quelle pensioni che sono elevate (dai tremila e 500 euro mensili lordi in su) e che non rappresentano – come ha scritto qualche giornale – il sacrosanto intoccabile frutto dei contributi pagati in una vita di lavoro, ma sono almeno in parte un regalo immotivato della collettività, che per giunta rischia di prolungarsi per due o tre decenni. L’Inps propone di portarle con gradualità e con varie salvaguardie (soprattutto per chi non supera i 5000 euro mensili lordi) al livello giustificato dai contributi versati; e lo stesso propone per i vitalizi di chi ha avuto cariche elettive in parlamento o nelle regioni.
Gli oltre due mila miliardi di euro di debito pubblico, accumulato in gran parte dagli anni ’70 in poi, sono il tragico risultato di uno Stato che elargisce sistematicamente favori e privilegi a chi non ne ha bisogno, e poi non ha i soldi per far fronte alle vere scottanti necessità. Per quanto tempo vogliamo ancora continuare?
L'autore è Professore ordinario di Economia politica all'Istituto Universitario Sophia di Loppiano (Firenze)