Penso di farmi trappista…

Terzo episodio della vita di padre Damiano de Veuster, missionario, portatore di speranza tra i lebbrosi, canonizzato l'11 ottobre.

A tredici anni – usava così in quelle campagne – Jef lasciò la scuola che aveva iniziato a sette. Quel giorno furon tirati due lunghi sospiri di sollievo. Uno lo tirò quel sant’uomo di un maestro Bols – Arnaldo Bols, per il suo esatto ricordo –, il quale, in tanti anni d’insegnamento, rare volte aveva avuto a che fare con un terremoto di tal genere; l’altro lo tirò mamma Caterina, che finalmente potè contare su Jef, oltre che su Leonzio e Gerardo, per un aiuto a lavorare la tenuta.

Eugenia, la figlia maggiore, s’era già fatta monaca dalle orsoline di Tildonk quando Jef trotterellava ancora i suoi primi passi; era diventata madre Alessia, ma qualche anno dopo era morta nel convento di Ulden. Allora Paolina, la sorella prediletta di Jef, aveva provveduto a rimpiazzarla nello stesso monastero, mentre Augusto già studiava il latino, per andarsene pure lui, presso i “Picpus” di Lovanio, cioè nella Congregazione dei Sacri Cuori, ch’è detta così dalla via Picpus di Parigi, dove risiede la casa madre.

 

Jef era ancora un ragazzino, a considerarne la età, ma, quanto a fisico, s’era allungato a tal segno, e quasi improvvisamente, da superare Leonzio di buoni venti centimetri, e s’era messo addosso certi muscoli, che suo padre andava in giro per i mercati a vantarsi di lui, gonfio come un pavone.

«Per il mio Jef – diceva, scommettendoci sopra – è un giochetto da ridere sollevar sacchi da un quintale l’uno!».

Con tutto quel po’ d’attrezzatura ossea e muscolare, Jef lavorava d’ascia nei boschi ad abbatter piante, di zappa e di vanga nei campi a rimuovere la terra, di falce nei prati a segare il fieno, e ogni strumento che impugnava pareva che lo stritolasse, con quelle due mani che aveva, grosse e callose da far paura.

E non gli bastava di sgobbare ogni dì, fin dalla prima alba, nell’azienda domestica; la sera teneva ancora delle energie di riserva, e andava a bruciarle nella bottega di Janneke Roef, il falegname.

 

Solo che toccava dappertutto, provava ogni arnese, tentava ogni lavoro, voleva battere addirittura il vecchio Janneke in lestezza e maestria, e così consumava in truccioli un sacco di materiale, oltre a fare una confusione d’inferno; e il vecchio Janneke, ch’era parecchio tirchio, perdeva ogni volta le staffe e il più delle sere lo cacciava via, e in malo modo. Ma l’indomani, rieccolo il guastatore!

Quattro anni di questa vita per Jef, poi il babbo decise: «Sarai il mio successore!».

E poiché nel commercio, vuoi delle sanguisughe e vuoi del grano, a parte ogni altra considerazione, una lingua di riserva offre sempre qualche vantaggio e apre nuove porte altrimenti inaccessibili; e poiché, come lui, anche il figlio Jef era cresciuto parlando solo il fiammingo, tanto per cominciare lo mandò alla scuola media di Braine-le-Comte, non perché vi frequentasse i corsi regolari, ma perché, stando lì dentro, imparasse la lingua francese.

A Braine-le-Comte, in collegio, l’esistenza si rivelò piuttosto dura e amara per quel gigante di campagna dalle dita nodose e larghe come spatole, in mezzo a dei ragazzini azzimati e saputelli, che gli facevano il verso quando infarciva di spropositi i suoi primi esordi nella loro lingua.

 

Beh, se passavano dall’ironia all’offesa, quei signorini in ghingheri, e incrudelivano troppo, Jef abbrancava una riga e se li toglieva di torno, minacciandoli di qualche piattonata. Ma di solito ce la faceva a trattenersi, scrollava le spalle e, anziché smontarsi, più cocciuto d’un mulo, faceva le notti bianche sui libri e rinunciava perfino alle vacanze, pur di rimediare al più presto al suo handicap.

Tanto che già nel giugno del 1857 egli riuscì a scrivere a casa la sua prima lettera in francese.

«Senza un errore!», assicurava papà Francesco, sbandierandola nelle varie locande, durante i suoi giri d’affari.

L’anno dopo – parlo del 1858 – a Brain-le-Comte ci furono le missioni, e a predicarle vennero i redentoristi. Un giorno Jef fu accompagnato ad assistervi con tutta la scolaresca, e allora gli accadde una cosa strana, di cui, sulle prime, neppur lui seppe rendersi ragione.

Rientrato, infatti, al collegio, mentre gli altri, dopo cena, se ne andarono come il solito a dormire, egli si trovò, quasi senza accorgersene, nella cappellina, e ci rimase per buona parte della notte.

Ciò che maturò in lui in quelle ore, venne a galla, per quanto appena accennato, in una sua lettera ai genitori del 17 luglio 1858, dove, scrivendo del fratello Augusto, che a Lovanio era già diventato «fratel Panfilo» dei “Picpus”, inseriva una frase – «Spero che verrà anche il mio turno» – che aveva tutta l’aria d’una avance, per sondare le reazioni dei suoi. Di papà, soprattutto, perché, quanto alla mamma, stava più tranquillo.

 

Le reazioni, un po’ scritte, un po’ mandate a dire, non furono quelle che Jef avrebbe desiderato.

«Ne ho già dati tre, di figli, al buon Dio – era su per giù la tesi di Francesco De Veuster quando ne parlava con la moglie –. Questo, almeno, avrò il diritto di tenermelo, no? È su di lui che ho impostato gli sviluppi futuri del mio commercio; altrimenti, morto io, tutto quello che ho creato va a finire in fumo».

Probabilmente a Jef il babbo non scrisse proprio in questi termini; gli fece comunque intendere il suo sgomento e si guardò bene dal dargli il consenso.

Fu per questo che la lettera d’auguri, giunta per le feste natalizie da Braine-le-Comte a “La Ninde” ebbe un tono se non risentito, senz’altro risoluto.

Cominciava subito con una dichiarazione inequivocabilmente precisa: «Miei cari genitori, non posso fare a meno di scrivervi in questo bel giorno di Natale, che mi ha portato la certezza che Dio mi chiama a lasciare il mondo e ad abbracciare la vita religiosa. Io domando il vostro consenso».        

Tutto il resto discendeva di conseguenza: «Vi prego di credere che io scelgo questo stato santo per una grazia della Divina Provvidenza nei miei riguardi. Certamente non mi impedirete di abbracciarlo se penserete che alla chiamata di Dio io devo obbedire; perché, rifiutare a vostro figlio di seguire la volontà di Dio nella scelta del suo stato, sarebbe un’ingratitudine, che attirerebbe su di voi dei terribili castighi…».

E via di questo passo, nello stile schietto della gente della sua terra, che non conosceva sfumature o circonlocuzioni, e tanto meno infingimenti.

 

Per il Capodanno del 1859 fu da “La Ninde”, stavolta, che giunse una lettera d’auguri a Braine-le-Comte. E fu finalmente la lettera che Jef desiderava.

Papà Francesco e mamma Anna Caterina non si opponevano più alla sua vocazione.

Lui, il babbo, addirittura, per dimostrargli ancor meglio d’essersi ricreduto, e che proprio non gliene voleva, dovendo in quei giorni raggiungere Lovanio per trattarvi una partita di grano, passò prima da Braine-le-Comte e, ottenuto dal direttore del collegio un giorno di permesso per Jef – «Sa, vorrei festeggiare con lui i suoi diciannove anni!» – se lo portò dietro.

«Tu hai da sbrigare i tuoi affari – gli disse Jef, appena arrivati in città –, io faccio un salto dai “Picpus” a salutare fratel Panfilo, ti va?».

«D’accordo, più tardi passo a prenderti e a salutarlo anch’io».

Jef in quattro parole mise il fratello al corrente di tutto.

«Penso di farmi trappista», concluse.

«Trappista?» gli obiettò fratel Panfilo. Allora la cosa sarebbe andata parecchio per le lunghe… E poi non era un desiderio tanto facile da appagare, quello della trappa… Pensasse piuttosto, che so?, ai “Picpus”, ecco!… Si sarebbe trovato sicuramente bene fra i padri dei Sacri Cuori, ed egli stesso avrebbe potuto parlarne al superiore, magari in giornata, e farlo accettare sui due piedi, anche subito.

«E allora, subito!», fu la risposta di Jef.

La sera, quando il babbo passò a prenderlo per riportarlo a Braine-le-Comte, tutto era ormai sistemato.

«Rimango qui»,   gli annunciò il figliolo.

«E la mamma, e i fratelli, non vieni neppure a salutarli?».

«Meglio di no ».

Voleva evitare gli addii, lo strazio del distacco definitivo… E voleva esser sicuro di restare.

Come vuoi tu, Jef», disse Francesco.

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