Pensieri da Milano, il cambio di ritmo di una città in attesa
“Semideserta, persone come fantasmi che si aggirano per le strade, tutti i negozi chiusi”: Milano non è così. Non è come la descrivono con ossessiva attenzione i social. Non è il set di un film post-catastrofico. Tutto è come rallentato.
È rallentata – quello sì – si muove con lentezza come nei giorni pigri del rientro dalle vacanze quando ancora la vita non è ripartita, nelle ultime giornate di agosto o nei giorni di Natale. Ma senza la festa.
I negozi e i bar sono aperti, le persone non rinunciano al caffè mattutino, ma chiudono alle 18.00, perché il rito degli aperitivi è stato prudenzialmente sospeso. Sono chiuse le scuole, le università, i teatri, i cinema e i musei. Tutto quello che porta vivacità e rumore per le strade.
Non so quanti anni sono che noi milanesi ci siamo abituati alla folla, ai turisti, ai tram pieni di gente che viene da ogni parte del mondo. A cenare a ogni ora della sera, a trovare negozi aperti tutta la notte, a camminare per strada anche di notte, perché le notti delle grandi metropoli sono il giorno degli studenti, dei turisti, dei giovani.
Tutto è come rallentato. Qualcuno domenica ha avuto paura, soprattutto nelle zone centrali dove le persone anziane sono più sole, e ha fatto scorte di cibo. I banconi di cibo vuoti hanno fatto il giro dei social, accendendo lo sdegno e l’ironia di chi sta lontano. Umanissima reazione alla solitudine e al bombardamento stupido di notizie.
È bastato a tanti l’arrivo del lunedì, mettere giù i piedi da internet e uscire di casa, per capire che la realtà forse è meno peggio della sua rappresentazione mediatica.
Anziani e soli. Il sindaco Sala, ancora una volta, è riuscito a parlare ai milanesi (e non solo) con grande ispirazione. Anziché assaltare i supermercati, perché non approfittare di questo tempo per dedicarsi ai più gracili – e voleva dire fragili – ma questo inciampo linguistico ha reso ancora più l’idea. Perché non dedicarci ai nostri anziani, alle persone sole? Forse perché bisogna imparare di nuovo a farlo, dopo anni di disattenzione, e ci vorrà tempo.
Ieri c’era il sole e giardini e parchi erano pieni di bambini. Almeno i più piccoli la possono vivere come un’insperata vacanza nel cuore dell’anno. Ci si muove a piedi, ci sono meno macchine in giro e le persone preferiscono – se possono – non prendere tram e metro. Ci sono le biciclette. Ciclisti con le mascherine, ma quelli ci sono tutto l’anno, perché l’aria di Milano non è proprio salutare.
Le chiese da domenica sono chiuse ma suonano le campana, negli orari delle messe che “non” si celebrano. E allora potremmo metterci in ascolto di quello che “non” succede. Vivere questa improvvisa dilatazione dei tempi riempiendola di senso e di qualche domanda radicale.
Non è facile. Non sarà possibile per tutti allo stesso modo.
Milano sembra tornata indietro nel tempo. Quando era una città poco estroversa e un po’ chiusa. Sono saltate tutte le manifestazioni pubbliche, gli eventi programmati, i convegni, gli spettacoli teatrali, le rassegne. Non è solo la cultura che tace. Tacciono tutti quegli infiniti lavori (e lavoratori) che tengono in piedi una città che vive di scambi, di cultura, di relazioni. Il danno economico, individuale e collettivo, sarà incalcolabile. E sarà pesante soprattutto per quella generazione più giovane che vive di commesse, di progetti, di scadenze, di precariato.
La città, che non si ferma mai, lavora da casa. Smart working è la parola d’ordine delle grandi aziende, tutti a casa armati dei loro PC, con enormi vantaggi per la salute e enormi risparmi per le aziende. E il lavoro prosegue come sempre. Certo, tutti lo capiscono, si potrà reggere una settimana, forse anche due, ma come si può pensare che questo tempo di attesa si dilati senza sosta?
Per qualcuno la paura e l’incertezza è già fonte di sofferenza. Penso soprattutto all’incertezza per le conseguenze economiche e concrete nella vita di molti, più che la paura del contagio. Il colpo economico sarà durissimo e richiederà misure di intervento straordinario, come già sollecitato da alcuni nostri parlamentari europei.
Perché la vera crisi non è il coronavirus ma i suoi effetti indiretti: sul sistema sanitario che rivela le sue debolezze, dopo anni di privatizzazione e indebolimento delle strutture, oggi sottoposto ad uno stress-test immane; sull’economia che è interconnessa e fragile, che dipende in modo strutturale dalle relazioni internazionali, sulla scuola già affaticata e sotto sforzo, sul turismo e l’immagine italiana nel mondo.
E poi c’è un dato più intimo e profondo. Per la maggior parte delle persone sane e che possono informarsi correttamente, è la grande occasione per capire qualcosa delle nostre vite insieme. Per tirare fuori qualcosa di buono dagli slanci di generosità e dalle piccole meschinità, per praticare buon senso e ragionevolezza, per recuperare senso della misura e equilibrio.
Forse è la grande occasione per tutti per diventare adulti, meno emotivi e scomposti di come ci vorrebbero i media. Capaci di fare fronte con senso civico, senso delle istituzioni, rispettosi della scienza e delle persone esperte, a questo vento di incertezza entrato nelle nostre case.
Non scomodiamo Manzoni, né Boccaccio, né Camus. Non è la peste. Non è la fine dei giorni. È un supplemento inatteso di giorni lenti e incerti, in cui provare a diventare cittadini più adulti in un Paese piccolo e un po’ bambino. Non è Milano, questa sarà l’Italia delle prossime settimane, a cui sarà richiesto un supplemento di unità e coesione.