Pensare più grande
Non era facile prevedere che, dopo l’abbuffata della globalizzazione – dalla caduta del Muro di Berlino al trionfo dei social nei primi anni di questo millennio −, ci si sarebbe ritrovati con una tendenza universale che tocca i 5 continenti al nazionalismo, al sovranismo, al localismo, al provincialismo, al molteplice e non più all’uno. Eppure, c’era da prevederlo – in effetti alcuni osservatori assai diversi come, tra gli altri, Henri Kissinger e Slavoj Zizek, l’avevano ipotizzato −, la domanda filosofica per eccellenza è quella dell’unità nella diversità, cioè dell’uno e del molteplice. Ci siamo, siamo nell’era del molteplice, dopo tanti anni in cui la tendenza alla convergenza aveva primeggiato. Le elezioni europee, ma pure quelle statunitensi, come quelle sudafricane e filippine, hanno sullo sfondo questo dato di fatto: prevale negli elettori, nei cittadini del mondo, la sensazione di dover difendere il proprio pezzo di terra e le sue prerogative, la propria cultura, il proprio orticello.
Purtroppo, ciò si concretizza soprattutto nella creazione di vecchi o nuovi nemici, che rafforzano così la propria illusione identitaria: io non sono quello che sono in relazione con gli altri, ma in opposizione agli altri. È una prova, l’ennesima, che la storia non è solo lineare ma anche ripetitiva, come suggeriva Giovanbattista Vico. Siamo cioè nella fase del ripiegamento su noi stessi: l’incertezza dello spazio aperto suscita il bisogno di limiti che ci difendano, di una terra che sia nostra e solo nostra, che preservi la nostra identità. E non è che questi sono discorsi da vecchi, come si diceva fino a qualche decennio addietro, ma sono anzi le nuove generazioni che fanno queste affermazioni, dalla Meloni a Bardella, da Sunak ai ragazzi di Bolsonaro.
Una questione che ha certamente influenzato questo stato di cose è la polarizzazione sostenuta dal capitalismo più spinto, nella convinzione che l’elemento più identitario che ci sia sono i consumi. Relegarci nel nostro angoletto confortevole, nella nostra confort zone, senza alzare lo sguardo su chi sta peggio di noi, ci spinge a un maggior consumo, a una ricerca di sicurezza col circondarci di oggetti che definiamo nostri: «È mio, guai a chi me lo tocca». La morte delle grandi ideologie favorisce questa deriva, che supera le antiche frontiere ideologiche, se è vero che uno dei capitalismi più spinti e più perniciosi è quello dei Paesi che erano retti dal socialismo reale, e talvolta lo sono ancora.
Se Bardella, che ha origini anche algerine e che ha almeno un musulmano nella famiglia, diventa il campione della destra identitaria e sovranista, ciò sentenzia come il cambiamento assai rapido cui stiamo assistendo sia radicale. Anche se Covid e guerre risorgenti dicono alle menti razionali che servono istanze inter e transnazionali forti e autorevoli, si fa di tutto per demonizzare quelle esistenti, svuotandole di ogni autorità soprattutto sanzionatoria.
Ma la storia cambierà di nuovo, e prima o poi riemergerà l’attenzione agli orizzonti ampi: non voglio con ciò dire che gli orizzonti ampi siano di sinistra e quelli di destra siano al contrario angusti. Il fatto è che abbiamo creato e ci stiamo ancora creando delle reti e dei bisogni che sono assolutamente transnazionali: pensiamo al commercio, agli effetti delle migrazioni, pensiamo ai viaggi e alle esigenze mediatiche e culturali, pensiamo all’intelligenza artificiale: tutti elementi che sembrano farsi beffa delle frontiere di un tempo e del concetto di Stato che le sostiene, proprio mentre richiudiamo le frontiere fisiche. Più ci chiudiamo, più si aprono esigenze transfrontaliere, che mettono tra parentesi le tradizionali divisioni nazionali. In questo senso, rischiamo lo strabismo o, peggio, la schizofrenia: propugniamo frontiere nazionali per chi deve entrare da noi, ma guai a chi vuole che usiamo il passaporto quando dobbiamo andare in vacanza all’estero.
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