Penalizzato chi legge
Abolite le tariffe postali agevolate per la stampa. Parziale reintegro per il non profit. Ridotte le uscite dello Stato a danno della cultura.
Ci sarebbe da ridere, se non fosse vero. Perché nulla è più esilarante della comicità involontaria. Incominciamo dal testo del decreto interministeriale dello scorso 30 marzo. L’art. 1 recita asciutto: «Le tariffe agevolate per le spedizioni di prodotti editoriali continuano ad applicarsi fino al 31 marzo 2010». Ovvero, in vigore ancora per un solo giorno. Il decreto viene varato dal governo in tutta fretta e subito pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 marzo.
Così il giorno dopo (guarda caso, il 1° aprile) Poste italiane deve adeguarsi, imponendo aumenti che vanno dal 120 al 500, al 700 per cento. Come pesce d’aprile non è male! Non va nemmeno dimenticato il fatto che tutto è avvenuto una volta acquisito il risultato delle elezioni regionali e comunali svoltesi in tanta parte del Paese il 28 e 29 marzo. Perfetto tempismo!
Già al primo incontro, in aprile, tra governo, Poste e associazioni di categoria di editori di libri, periodici e quotidiani la situazione si è bloccata, pur presenti il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Letta, l’allora ministro dello Sviluppo economico, Scajola, il vice ministro con delega alle telecomunicazioni Romani, il sottosegretario con delega all’editoria, Bonaiuti, l’amministratore delegato di Poste italiane, Sarmi.
Si mobilitano allora i parlamentari. Non produce tuttavia effetti l’interpellanza urgente – «se non si intenda abrogare il decreto e ripristinare immediatamente le tariffe agevolate» – presentata il 9 aprile da 80 deputati dei due schieramenti. Il 20 aprile ci provano 40 parlamentari della maggioranza con un’interrogazione promossa dal capogruppo Pdl in commissione Bilancio, Toccafondi. «Eliminare senza preavviso le agevolazioni per gli abbonamenti postali – si legge nel testo – rischia di far chiudere centinaia di periodici». Qualche giorno dopo è la volta di 143 ardimentosi senatori di tutti i gruppi: chiedono una proroga, «almeno fino al 31 dicembre 2010».
Nelle commissioni Finanza e Attività produttive della Camera il 28 aprile viene finalmente accolto un emendamento di Pugliese (Pdl) e Bobba (Pd) che ripristina in parte le agevolazioni: riguardano solo i giornali editi da associazioni non profit e che non abbiano pubblicità; non devono superare il 50 per cento della tariffa ordinaria; il provvedimento vale solo per il 2010; il fondo dispone di 30 milioni appena.
Il testo modificato è stato poi convertito in legge dalla Camera il 6 maggio e dal Senato tredici giorni dopo. Il settimanale Vita, la rivista del non profit che aveva promosso un appello, ha gridato al successo. Ma è solo una vittoria parziale. Tutti gli altri – compresa Città Nuova – non beneficiano ora di agevolazioni.
Per la verità, al momento in cui scriviamo, di vincitori, purtroppo, non ce ne sono. La legge è approvata da un mese, ma delle nuove tariffe agevolate per il non profit non è stato definito nulla. Poste italiane ha dichiarato di attendere un decreto attuativo. Avrebbe dovuto emanarlo il ministero dello Sviluppo economico, ma con le dimissioni di Scajola la materia è diventata molto secondaria. Spetta perciò al presidente del Consiglio, che regge ad interim il dicastero, ma ha ben altre urgenze.
Insomma, se tutta la faccenda non fosse vera, ci sarebbe materia per ridere. Per di più, è risultata infelicissima anche la scelta del periodo (fine marzo), quando gli abbonamenti sono acquisiti, quando inizia il periodo in cui si effettuano tante spedizioni ad abbonati, soci, iscritti.
Gli effetti colpiscono 5.100 aziende editrici e 2.900 editori profit e non profit, 1.400 organizzazioni non lucrative religiose e 3.400 laiche. Tutti memori che lo scorso anno il bilancio statale s’era accollato i 241 milioni di euro da rimborsare alle Poste. Come negli anni precedenti, come nei governi precedenti. Nulla lasciava presagire il peggio.
Il pugno, in aggiunta, è arrivato quando continuano a crollare gli introiti pubblicitari, si riducono le vendite, flettono le cifre degli abbonamenti, mentre, di contro, salgono i costi di materie prime, di produzione e, ora, di diffusione.
«Sono interventi che stanno distruggendo, pezzo dopo pezzo, un sistema, senza che si siano create le condizioni per una transizione virtuosa verso un processo di sviluppo – fa presente Franco Siddi, segretario della Finsi, sindacato dei giornalisti –. Il provvedimento mette in ginocchio un sistema editoriale che non avrebbe bisogno di benefici se in Italia ci fosse un servizio postale sul mercato e tariffe con il giusto prezzo».
Poste italiane attende una decisione governativa. Le tariffe sono ancora pubbliche (nel 2011 entrerà in vigore la liberalizzazione dei servizi postali) e vanno pertanto stabilite dal ministero. «Nel frattempo – chiarisce Agostino Mazzurco, responsabile Relazioni esterne di Poste – abbiamo ipotizzato prodotti per andare incontro a editori, stampatori, spedizionieri. Con qualcuno abbiamo raggiunto un accordo, con altri stiamo mettendo a punto possibili soluzioni. Una cosa è però certa: senza l’intervento dello Stato noi non possiamo tornare alle tariffe di prima».
L’aggravio è ora tutto sulle spalle dell’editoria. La Nuova Ecologia, ad esempio, è il mensile di Legambiente, quasi 80 mila copie, di cui 35 mila spedite. «È stata per noi una mazzata – afferma Marco Fratoddi, direttore della rivista –, 60-70 mila euro in più all’anno». Sarà l’editore a decidere se aumentare il prezzo dell’abbonamento. «Decisione inevitabile – anticipa –, anche se stiamo già riducendo le spese di produzione, dalle foto acquistate alle collaborazioni esterne. Cercando di salvaguardare la qualità giornalistica». Commenta: «Tagli alla scuola, tagli alla cultura, tagli all’editoria. Messe in sequenza, queste scelte fanno venire qualche pensiero: quasi che non si veda di buon occhio un Paese più maturo, una cittadinanza più consapevole. Si potrebbe, invece, investire nell’economia della cultura, valorizzando beni e saperi per lo sviluppo».
Non è il solo a chiederselo. «Chi ha paura della cultura e del pensiero libero? – annota su Famiglia Cristiana il direttore, don Antonio Sciortino –. La diversità d’opinione non è più considerata una ricchezza, ma eversione. Andiamo verso un pensiero unico, calato dall’alto». Per il diffuso settimanale cattolico l’abolizione delle agevolazioni postali è un grave colpo. Tanto che ha dovuto portare il prezzo di copertina da 1,95 a 2 euro con il n. 17 del 25 aprile. Ma per le copie in abbonamento non c’è nulla da fare.
«Pensi che il n. 14 – illustra Roberto Allievi, dirigente del periodico dei Paolini – aveva un costo di spedizione di 0,25 euro, il n. 15, 0,56. Un rincaro che significa 3,3 milioni di uscite in più all’anno. Speriamo che i contributi ritornino. Perché aumentare il prezzo di abbonamento non è l’ipotesi più facile da considerare».
La vicenda resta tuttora in alto mare. Poste italiane ha ripristinato la tariffa piena (0,28 euro sino a 200 grammi), pur dicendosi disponibile ad uno sconto del 20 per cento. Troppo poco per gli editori, che chiedono di procedere per gradi, magari con un progressivo aumento in tre anni, potendo così programmare futuri prezzi e spese. Ma nell’ultimo incontro tra le parti, il rappresentante del governo ha ribadito che non ci sono risorse per prendere in considerazione un’ipotesi di dilazionamento. Quella riunione s’è svolta a fine maggio. Da allora, tutto è rimasto fermo. Non è stato neanche definito un termine entro il quale il ministero debba definire la nuova tariffa per il non profit e comunicare se intende provvedere a qualcosa per il profit.
Tutto tace. Tutto è in stallo. Più che alla commedia all’italiana siamo arrivati al teatro dell’assurdo, degno di Jonesco. «Due sono le ipotesi possibili per il profit – prospetta Vittorio Volpi, funzionario dell’Unione stampa periodica italiana, cui è iscritta Città Nuova –: il governo reperisce risorse da destinare ad un proporzionato contenimento delle tariffe; oppure il ministero determina una tariffa e le Poste sono costrette ad accettare, con contraccolpi sul bilancio aziendale». A meno che non si perseguano trattative tra Poste e singole categorie. Chiude Volpi: «Contro il decreto, comunque, abbiamo presentato ricorso al Tar».
Vedremo gli sviluppi. Per il momento resta vero che il decreto sta mettendo in difficoltà il mondo dell’editoria, compresa quella – e Città Nuova ne è espressione – che dà voce alla società civile, che diffonde cultura, valori fondamentali, stili di vita costruttivi, logiche solidali. Tutto questo viene penalizzato. E non ci sono motivi per ridere.
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Gli effetti su Città Nuova
Un solo numero in luglio
Immediata, la replica. Indirizzata all’allora ministro Scajola, al suo collega Tremonti, al sottosegretario Letta. Con un telegramma, Danilo Virdis, direttore generale del Gruppo editoriale Città Nuova, manifestava – all’unisono con molti altri editori –profonda preoccupazione per i riflessi sull’occupazione e invitava a riconsiderare gli effetti del decreto.
Da allora, abbiamo incominciato a contenere le spese per controbilanciare i maggiori oneri (anche del 700 per cento nell’invio di libri). Ma il doveroso impegno produce effetti limitati rispetto all’entità degli accresciuti costi. La rivista non beneficia delle agevolazioni di nuovo concesse per il non profit, perché contiene pubblicità. Il sopraggiunto onere è perciò di 7 mila euro a numero, mentre il prezzo di abbonamento permetteva di andare poco oltre il pareggio di bilancio. Ora non più.
Cosa fare? Ci siamo consultati con la grande famiglia della rivista, ci siamo interrogati assieme agli incaricati venuti a Roma il 5 e 6 giugno. La decisione conclusiva è stata maturata e sofferta: uscire in luglio con un numero e non due, in modo che la mancata stampa e spedizione consentano quei risparmi che permettono di ridurre l’impatto economico dei sopravvenuti costi postali. Siamo dispiaciuti con gli abbonati e i lettori. E contiamo, come già ci hanno ampiamente manifestato, sulla loro appassionata comprensione e condivisione.
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Italia al 40° posto
Ma quale libertà d’informazione!
Ci sarà qualche motivo se Reporters sans frontiéres, organizzazione internazionale per i diritti e la libertà di stampa, nel suo Rapporto 2009 colloca l’Italia al 40° posto nella classifica sulla libertà di stampa. L’informazione italiana è controllata da gruppi di potere che ne influenzano la linea editoriale. Eccoli in rassegna.
– Rcs Mediagroup possiede Corriere della sera, Gazzetta dello sport, Novella 2000, Amica, Anna, Il Mondo, Agr radio, Cnr radio, ecc. Rcs è controllata da un patto di sindacato con oltre il 60 per cento delle azioni composto da Mediobanca, Fiat, Pesenti, Ligresti, Della Valle, Pirelli, Edison, Gemina.
– Editoriale L’Espresso detiene la Repubblica, L’Espresso, Micromega, Limes, National Geographic Italia, Le Scienze, Il Tirreno e altri quotidiani locali, oltre a Radio Deejay e Radio Capital. Il gruppo è controllato da Carlo De Benedetti.
– Il Messaggero, di Roma, Il Mattino, di Napoli, Il Gazzettino di Venezia, Il Corriere Adriatico, di Ancona, Il Nuovo quotidiano, di Puglia, sono controllati dai costruttori Caltagirone, azionisti anche in banche come Montepaschi.
– Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino, il Quotidiano nazionale e alcuni quotidiani locali sono di proprietà del gruppo Riffeser, che controlla oltre il 60 per cento del capitale; il 7,5 appartiene a Rcs.
– La Stampa è di proprietà degli Agnelli.
– Il Sole 24 ore e Radio 24 fanno capo a Confindustria, di cui sono parte molti industriali che controllano già gruppi editoriali.
– La7, emittente televisiva, e l’agenzia di stampa ApCom appartengono a Telecom Italia Media, controllata da Antonveneta, Unipol, Montepaschi, Pirelli, Benetton, Assicurazioni Generali.
– Sky Italia è interamente controllata da News Corp del magnate australiano Murdoch.
– Mediaset, con Canale 5, Italia 1 e Rete 4, è controllato, attraverso la Fininvest, dalla famiglia Berlusconi.
– Mondadori, della famiglia Berlusconi, possiede altre editrici come Einaudi, Sperling&Kupfer, Piemme e testate quali Panorama, Tv Sorrisi e Canzoni, Chi, Donna moderna, Grazia, Auto oggi, Confidenze, Focus, Men’s Health.
– Rai, con le sue reti televisive e radiofoniche, dovrebbe assicurare il servizio pubblico dell’informazione. Sappiamo, in realtà, che la maggioranza di turno in Parlamento ne influenza la linea editoriale attraverso il consiglio di amministrazione e la Commissione di vigilanza.
– Nell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agicom), gli otto commissari sono eletti da Camera e Senato. Il presidente viene proposto dal capo del governo. Dunque, un organismo non indipendente dalla maggioranza di turno.
– Gli italiani che si informano lo fanno quasi esclusivamente tramite la televisione (dati Istat). Nel voto delle elezioni europee 2009, i tg erano stati determinanti per il 69,3 per cento degli elettori (dati Censis).