Pelé, il re del calcio
Possiamo dire che i documentari sui calciatori stiano andando di moda, visto che non troppo tempo fa ne é stato realizzato uno sul centravanti argentino Batistuta, e ancora più di recente c’è stato quello di Alex Infascelli sul numero dieci più importante nella storia della Roma: Mi chiamo Francesco Totti, chiaro evidenziatore delle potenzialità espressive del documentario per narrare le vicende sportive e umane di un campione, per alimentare la celebrità o il mito di un personaggio già amato e popolare. A poche settimane fa risale l’uscita su Amazon Prime Video di un docufilm decisamente valido sul controverso, geniale e fragile, fuoriclasse inglese Paul Gaiscogne, ed ora sbarca su Netflix – esattamente il 23 febbraio – Pelè: il re del calcio, un corposo documentario su quello che da molti – non solo in Brasile – è considerato il calciatore migliore di tutti i tempi.
Come gli altri suoi omologhi, anche questo docufilm punta sulle immagini di repertorio e sulle interviste, ovvero sui frammenti di realtà raccolti in una storia che non ha bisogno che di se stessa per essere appetibile e attraente. O quasi, perché poi il documentario è narrazione, scrittura, e le idee narrative, i tempi del racconto, l’elaborazione al montaggio del materiale di partenza, la scelta di approfondire determinati aspetti di un protagonista piuttosto che altri, fanno la differenza, e ribadiscono la relazione imprescindibile tra autore e realtà in un film non di finzione.
Uno dei maggiori esempi in questo senso è il documentario di Kusturica su Maradona, ormai vecchio di parecchi anni, ma ancora in grande forma. Pelè: il re del calcio, è composto da diverse interviste: parlano suoi mitici ex compagni di squadra come Zagallo, Jairzinho e Rivellino; parlano i suoi familiari, i giornalisti e persino figure politiche di un tempo ormai lontano. Ma soprattutto parla Pelè, e il suo racconto è centrale, è il vero motore del film.
La sua testimonianza torna sul valore simbolico rappresentato da Pelè per la sua terra e la sua gente, ma è anche, forse principalmente, il racconto in prima persona del suo essere stato atleta e calciatore fantastico, e il film è prima di tutto una ricognizione densa e dettagliata per ribadire la bellezza e la grandezza di uno sportivo in attività quando la presenza dei media era marcatamente più discreta e relativa rispetto non solo ai giorni nostri, ma anche agli anni ’80 di Diego Armando Maradona, per esempio.
Attraverso tanti materiali di repertorio, parecchi dei quali in bianco e nero – il che già dice tanto – e altri a colori, vengono ripercorsi i momenti topici, i gesti e i numeri pazzeschi del genio Pelè, soprattutto uno, che poi è un tre, come le volte in cui ha alzato al cielo la coppa del mondo. Nessuno ha fatto mai altrettanto: 1958 in Svezia, 1962 in Cile, 1970 in Messico contro l’Italia, dopo la delusione brasiliana in Inghilterra nel ’66.
E in questo viaggio sportivo Pelè torna ragazzo, recupera doti fisiche e tecniche che danno l’impressione di potersi confrontare, e forse anche vincere, in un campo di calcio astratto e ideale contro le divinità di oggi, con Messi e Ronaldo in testa, tallonati in questi giorni dal giovane Mbappè.
Pelè è classe allo stato puro, ma è anche moderna esplosività. È calcio per intelligenza e corsa, oltreché per i piedi, e vederlo così da vicino fa una certa impressione, perché tanto è vivo ancora il suo nome, il suo mito citato tra la gente, quanto poco visibile, poco mediatico, appunto, è il suo corpo al lavoro.
Accanto a questo aspetto c’è il racconto del Pelè uomo, credente, in fondo semplice, nel film diretto da Ben Nicholas e David Tryhorn, con Kevin Macdonald (regista di L’ultimo re di Scozia e Oscar nel 2000 con il documentario Un giorno a settembre) nella veste di produttore esecutivo. E c’è il rapporto di quel ragazzo veloce e potente con la storia di una nazione in cui politica e calcio sono intimamente, inevitabilmente legati.
E non poteva non esserci un passaggio sulla dittatura, e il racconto di come il calcio – la nazionale soprattutto – sia stato da questa utilizzato come strumento di propaganda. C’è il racconto di un Pelè non impegnato politicamente come Mohamed Ali, anche se uno degli intervistati sottolinea come fosse più facile essere attivi in politica negli Stati Uniti in quegli anni piuttosto che in un Paese come il Brasile dove c’era la dittatura. Sul delicato argomento interviene lo stesso Pelè: «Non credo che avrei potuto fare qualcosa di diverso», ed aggiunge: «Non ero un superuomo, non facevo miracoli. Ero una persona normale a cui Dio ha concesso il dono, il privilegio, di essere un calciatore. Ma sono certo di aver fatto molto di più per il mio paese con il calcio di quanto abbiano fatto molti politici pagati per fare il bene del popolo».
Un superuomo forse non lo è stato, ma un superatleta si, con quei 1293 goal in 1387 partite e con quelle braccia al cielo tre volte, per far vedere alla sua terra la coppa color d’oro.