Pedro Opeka e la discarica trasformata in città
Lo chiamano “il muratore di Dio”, “l’apostolo della spazzatura” e via dicendo. I nomignoli per descrivere l’argentino Pedro Opeka, sacerdote vincenziano lazzarista, abbondano. Il “pallino” per il tetto, padre Opeka ce l’ha avuto fin da adolescente. Non aveva compiuto 17 anni quando, ai piedi delle Ande, ha costruito una casa per una famiglia indigena mapuche che ne era priva. Ha ragione, non a caso papa Francesco sostiene che “tetto, lavoro e terra” sono “diritti sacri”. Non regali e nemmeno concessioni, ma diritti.
Opeka proviene da una famiglia di emigrati sloveni che lasciarono la loro terra quando la Jugoslavia stava per trasformarsi nel regime del maresciallo Tito. Come tutti gli immigrati giunti in terra argentina, gli Opeka trovarono casa e lavoro a San Martín, a un passo da Buenos Aires. Lì nacque Pedro, nel 1948. L’Argentina avanzava all’epoca sotto la guida del primo peronismo, quello che portò masse di diseredati ad un salario dignitoso, ai diritti sindacali, alle ferie (cosa poi sia successo al peronismo è un’altra storia). Pertanto, la povertà e le disuguaglianze sociali padre Opeka le ha conosciute fin da piccolo. Volle entrare in seminario che aveva appena 15 anni. Tra i vincenziani lazzaristi presso i quali studiò Teologia, poi perfezionandosi in Europa: a Lubiana e in Francia.
Nel 1975, a 27 anni, venne ordinato sacerdote e poi inviato in Madagascar, prima a Vangaindrano, nel sud, poi nella capitale, Antananarivo. Li conobbe l’enorme discarica di rifiuti dove i bambini, scalzi, rovistavano tutto il giorno e ci vivevano. «Qui bisogna tacere, perché altrimenti sarebbe una mancanza di rispetto nei loro confronti. Piuttosto, dobbiamo metterci al lavoro». E don Pedro si mise al lavoro.
Cominciò a farsi amico di tutti, soprattutto dei piccoli. E cosa può fare uno che viene dall’Argentina per fare amicizia? Gioca a calcio! Lui col pallone ci sapeva fare, e la cosa attirò tanti. Ma non bastava. In Africa per un bianco non è sempre facile ottenere la fiducia della gente. Nel fondo, sanno che un bianco avrà sempre una polizza di assicurazione in caso di problemi. Infatti, successe che quando il sacerdote si ammalò in modo grave, visto che l’ospedale locale non aveva potuto fare granché, la congregazione lo mandò in ospedale a Parigi. Una scelta che gli salvò la vita, ma che nessuno tra i suoi parrocchiani poteva permettersi.
Opeka decise allora che andava rimodellato il centro ospedaliero malgascio. Mise in moto mezzo mondo, anche la prima dama di Francia, all’epoca Danielle Mitterand, presidente della ong France Libertés. Gli abitanti della zona fornirono la mano d’opera, perché per Opeka è importante che ciascuno faccia la propria parte con responsabilità. Poi cominciarono a prendere forma altre idee. Mise su un refettorio, 4 metri per 4, dove dare un bicchiere di latte ai bambini, giocare con loro, insegnare a scrivere e a leggere. Vicino alla discarica c’era un monte di granito. Perché non trasformare il minerale in pietrisco da vendere per l’edilizia? Questa attività ha poi dato lavoro a 2.500 persone che fino a quel momento vivevano a malapena della spazzatura. Ma i rifiuti possono essere una risorsa e si cominciò a produrre e vendere concime naturale.
Poco a poco, avendo un lavoro e delle entrate, ai bordi della discarica le baracche cominciarono a trasformarsi in casette, poi ad avere un secondo piano. Opeka insegnò ai giovani il mestiere di muratore. La gente si mise assieme e di case se ne costruirono 4.000. Si formarono 17 villaggi che, fusi, formarono una città di 25 mila abitanti dotata di una gestione comunitaria. Così nacque Akamasoa (i buoni amici, in malgascio). Poi venne il turno delle scuole di ogni livello, dei centri sanitari e anche di portare altrove l’esperienza maturata in quella discarica. Si stima che il metodo Opeka abbia sottratto alla povertà mezzo milione di persone.
I premi e i riconoscimenti ormai si ammucchiano da qualche parte dove vive padre Opeka. Ma i suoi occhi brillanti, incorniciati dalla folta capigliatura e la barba brizzolata di un 73enne, guardano i tanti giovani che oggi vivono con dignità senza dover scavare nella spazzatura. Che possano sperare è per lui l’unico vero premio.