Pechino e Washington, prove d’intesa
Né le salve di cannone né il tappeto rosso sono riusciti a trasformare la visita a Washington del presidente cinese Hu Jintao in una nuova fase delle relazioni tra il gigante americano e quello cinese. Sui tre punti più importanti sui cui si gioca il futuro dei rapporti tra una potenza mondiale matura ed una ancora adolescente (si fa per dire, visti i diversi millenni di storia cinese) il registro rimane diverso. In campo economico-commerciale, gli Stati Uniti vorrebbero che Pechino procedesse ad una rivalutazione della sua moneta per arginare l’invasione di merci cinesi a buon mercato sulla piazza americana. I cinesi hanno promesso vaghe misure legate all’aumento dei consumi interni e quindi all’avvento di una economia meno legata alle esportazioni.Ma i tempi sono lunghi. Nell’immediato, hanno offerto di comprare di più tecnologia americana, impegnandosi ad esempio ad acquistare dalla Boeing 600 nuovi aerei ogni cinque anni. Sullo sfondo, la crescente competizione per l’accesso alle risorse petrolifere mondiali, di cui la Cina ha sempre più bisogno per la sua economia. Scarsi i progressi anche sulle questioni di politica internazionale più spinose, come Iran, Corea del Nord, Sudan-Darfur. Gli americani chiedono a Pechino di diventare un azionista responsabile sulla scena mondiale. I cinesi rispondono che prima occorre essere partecipi in modo paritario delle decisioni e della gestione comune delle questioni preoccupanti per la pace e la stabilità internazionale. Il terzo elemento riguarda le questioni politico-militari. Dal lato americano, si guarda con sospetto alle forti spese militari della Cina, e si invitano altri Paesi (come quelli europei) a mantenere l’embargo sulle forniture militari (deciso ai tempi delle proteste di Piazza Tiananmen). Il punto di vista di Pechino è ovviamente assai diverso: la Cina guarda essa con perplessità alla strategia di controllo (la cosiddetta hedging strategy) applicata dagli americani nei suoi confronti con il consolidarsi di alleanze con Giappone, India, Australia, Indonesia, e con il riposizionamento nelle basi del Pacifico. Senza contare le persistenti obiezioni al sostegno assicurato dagli Stati Uniti a Taiwan, pur con la precisazione che Washington non appoggia le richieste di indipendenza dell’isola. E vanno aggiunti alla lista i diritti umani, la libertà religiosa, i detenuti politici in Cina. Certo, non un dialogo tra sordi, ma nemmeno un duetto intonato. In un mondo inquieto, persino un evento senza infamia e senza lode può essere una buona notizia.