Pazzi per la natura
Non si conobbero perché vissuti in luoghi e in tempi diversi: Maria Sibylla Merian, olandese, dal 1647 al 1717; Alexander von Humboldt, tedesco, dal 1769 al 1859. Entrambi però, animati da sacro fuoco, esplorarono terre sconosciute e con i loro studi e ricerche dettero contributi preziosi per l’avanzamento delle scienze naturali, catturando l’interesse di collezionisti, studiosi e intellettuali di tutta l’Europa. Due recenti biografie illustrano questi personaggi d’eccezione che hanno svelato leggi ignote della natura. Edita da Pendragon, Nel gran teatro della natura ci fa conoscere il valore della Merian pittrice, illustratrice e naturalista: una donna che ha saputo tramutare a suo vantaggio pregiudizi e costrizioni secolari in un modo che ancora oggi appare sbalorditivo, grazie a un impegno instancabile, fatto di rigore, pazienza, visione, studio. Si imbarcò, alla fine di giugno del 1699, su un veliero della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, che da Amsterdam la condusse nella colonia del Suriname, per una spedizione al tempo stesso artistica, scientifica e commerciale. Non godendo di protezione né di incarichi pubblici, a differenza dei naturalisti esploratori del suo tempo, la Merian aveva venduto tutto ciò che possedeva per sostenere i costi di tale impresa.
Nelle terre incognite del Nuovo Mondo non di rado fatali agli europei non abituati al clima raccolse insetti e altri animali che osservava e disegnava, documentando minuziosamente quello che più le stava a cuore, e cioè il processo di trasformazione. Serpenti, iguane, rospi, bruchi e farfalle, con le piante di cui si nutrivano, diedero vita così a meravigliose tavole di incisioni acquarellate, alcune delle quali arricchiscono il volume dell’autrice Brunella Torresin. Dotata, temeraria e determinata, Maria Sibylla Merian ci offre l’esempio di un destino eccezionale, compiuto forzando le convenzioni sociali, reinventando i codici della propria professione, realizzando una felice sintesi di arte e scienza.
Ancora più dotato, temerario e determinato di lei (e certamente più famoso) è Alexander von Humboldt, protagonista della seconda biografia, L’invenzione della natura, edita da Luiss. L’autrice, la storica e scrittrice inglese Andrea Wulf, ha saputo rendere le quasi 400 pagine di testo (escluse note, fonti e bibliografia), estremamente trascinanti, al seguito di questo giramondo che a Parigi o a Berlino, nelle Americhe o nella steppa kazaka al confine mongolo della Russia, si sentì a casa dovunque.
Ossessionato dal Chimborazo, la massima cima delle Ande ecuadoriane con i suoi quasi 6500 metri di considerata, ancora nel XIX secolo, la montagna più alta del mondo, Humboldt fu soddisfatto solo finché nel 1802, insieme ad altri tre compagni, ne affrontò l’ardua scalata. A quota 5917, tuttavia, appena 300 metri sotto la vetta, non fu possibile proseguire per mancanza di ossigeno. Con ciò nessuno prima di lui aveva raggiunto tale altezza!
Immense le difficoltà incontrate (in certi tratti bisognò procedere strisciando carponi lungo un crinale non più largo di cinque centimetri), ma enorme la messe di informazioni e di campioni raccolta. Fu come se l’intero mondo vegetale gli si dispiegasse a strati sovrapposti a mano a mano che procedeva nell’ascensione: dalle specie tropicali ai piedi della montagna a quelle dei livelli superiori tipiche di un clima più temperato, fino ai licheni sotto la linea delle nevi perenni.
Dopo l’impresa ecuadoriana, questo geniale scienziato vissuto tra Settecento e Ottocento era ormai pronto per formulare una nuova visione della natura, che nella sua meravigliosa varietà gli era apparsa “una”, un unico organismo vivente dove tutto – pietre, piante, animali e uomini – era mirabilmente connesso, e dove ogni singolo fenomeno trovava senso in relazione con l’insieme. Visione, questa, ben diversa dalle rigide classificazioni del mondo naturale proprie del suo tempo.
Primo a teorizzare l’unità basilare del mondo creato, per cui ogni attentato alla integrità ecologica nel più sperduto angolo ha conseguenze sull’intero pianeta e i suoi abitanti, Humboldt fu anche il primo a richiamare l’uomo alla propria responsabilità verso la natura elencando i futuri effetti catastrofici operati dal suo dissennato saccheggio: inquinamento, cambiamenti climatici, estinzione di specie animali e vegetali, carenza di risorse necessarie alla vita…
Nel suo indagare come “funziona” il mondo che ci ospita, inventò le isoterme, ossia le linee della temperatura e della pressione che appaiono sulle odierne mappe climatiche, e scoprì l’equatore magnetico, unendo al rigore dello scienziato la passione dell’innamorato, la ragione al sentimento: le due forme di conoscenza di cui siamo dotati. Capace di un’attività lavorativa incredibile («come se avesse otto gambe e quattro mani»), ma anche di affrontare sacrifici al limite delle possibilità umane (rischiò più volte la vita), Humboldt divenne «il punto di riferimento della comunità scientifica, con oltre 50 mila lettere scritte e almeno il doppio ricevute». Per lui infatti – osserva la Wulf – «la conoscenza andava condivisa, scambiata e messa a disposizione di tutti».
Tradotti in moltissime lingue, i suoi libri andavano a ruba fra i lettori comuni e influenzarono molti dei più grandi pensatori, artisti e scienziati dell’epoca. In seguito però la fama di quest’uomo ritenuta dai suoi contemporanei seconda solo a quella di Napoleone rimase limitata quasi esclusivamente alla cerchia degli studiosi. Per questo L’invenzione della natura rende finalmente giustizia ad un genio le cui tracce nel pianeta sono innumerevoli: basti pensare a quanti capi, baie, correnti marine, laghi, fiumi, catene montuose, piante, animali, minerali, città, parchi naturali e monumenti sono intestati a suo nome. Perfino sulla Luna esiste un “Mare Humboldtianum”.
Eppure un tale uomo morì in povertà. Egli non si sposò mai, non ebbe figli suoi. Ma siccome la nuova sensibilità ecologica dell’epoca in cui viviamo è una sua eredità, non è errato concludere che per questo aspetto siamo tutti figli di Humboldt.