Chi ha paura di Virginia Woolf?
La grande stanza dai lunghi tendaggi color verde è uno spazio della mente, è palcoscenico della vita reale e irreale, è perimetro dell’immaginazione, di fuga dal mondo e rifugio. Allineati in proscenio, dei piccoli gatti di porcellana rivolti verso il pubblico, saranno i testimoni muti degli eventi in atto. La scena rimanda a certe atmosfere del cinema di David Lynch, un ring per un duello esistenziale di anime in cerca di amore. Confinati dal regista Antonio Latella tra quelle mura domestiche, i 4 personaggi di Chi ha paura di Virginia Woolf?, dramma dell’americano Edward Albee, consumano un gioco al massacro tutto verbale, dentro una geometria di movimenti che li vede spostarsi continuamente tra una poltrona, un armadio a doppia anta che è anche porta, un pianoforte verticale messo di sbieco, e un mobile quale punto di attrazione per bevute di alcol qui solo immaginato nei bicchieri e nelle bottiglie vuote (scena di Annalisa Zaccheria).
È una ragnatela tessuta di squallore, livori, isterismi, sarcasmo, menzogne, quella che lega George, mediocre professore universitario di biologia, e Martha, moglie alcolizzata, figlia del preside di un piccolo college. Sono una coppia di mezza età il cui rapporto di amore e odio è arrivato al capolinea. Si detestano, eppure continuano a stare l’uno al fianco dell’altra. Lungo l’arco di una lunga notte, il “jeu de massacre” si consuma con l’arrivo di una giovane coppia di sposini – la fragile Honey e il rampante docente di biologia Nick -, invitati da Martha a insaputa del marito, per l’ultimo drink dopo una serata organizzata dal padre di lei. Davanti agli inconsapevoli ospiti invitati a un gioco della verità che si rivelerà cinico ed esasperante, i due si lasciano andare alla loro crudele “commedia”, contemporaneamente complici e carnefici di loro stessi. Lungo la notte affiorano verità nascoste, presunte o tali, con l’affronto estremo: quello di rivelare che lui e la moglie, diversamente da quanto avevano lasciato credere, non hanno alcun figlio, venendo meno così a un loro patto («Non puoi decidere tu queste cose!», grida Martha a George). La loro era solo una creatura immaginaria, frutto dell’esercizio della fantasia, perché «…amore e creazione talvolta si fondono – spiega la drammaturga Linda Dalisi -, e quando avviene si può superare il tempo, il dolore per l’assenza di un figlio cui trasmettere i propri racconti… si può superare la propria infelicità e la propria paura, perfino la paura di essere felici, o di vivere ogni giorno in pienezza; di farlo nel gioco. Nel superamento dei limiti, nello sprofondare nel buio e attraverso l’esorcismo, rinascere in una diversa luce».
In Chi ha paura di Virginia Woolf? (debutto a Broadway nel 1962, poi versione cinematografica di Mike Nichols) Albee pone, tra il resto, un quesito: «Chi ha paura di vivere senza false illusioni? Perché è la paura, il vero grande lupo cattivo che ci spinge verso le delusioni». Martha e George temono una vita senza illusioni, o meglio ne parleranno solo artificialmente aiutati dall’alcol, creandosi una sorta di proiezione giovanile di sé stessi nei giovani ospiti. Saranno proprio questi fantasmi del passato ad aizzare il feroce duello verbale e la loro malata creatività. Giocando, Martha e George fanno teatro, mettono in scena la realtà. E man mano che parlano e ridono, scoprendosi nei loro pensieri, tra cattiverie, adulazioni e minacce, bugie e offese, paure e farneticazioni, racconti reali o inventati di storie del passato, le due coppie si rivelano “mostri”, crudeli o patetici. Anche Nick e Honey si spingeranno oltre, condividendo una successione di smascheramenti nel confronto con la realtà.
Il linguaggio – ogni personaggio ha il suo come scudo e arma contundente al tempo stesso – diventa una lama tagliente per attaccare e ridurre a brandelli l’involucro in cui ciascuno si nasconde. Per non morire. «Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire. La morte la puoi vincere solo con l’invenzione». Albee prende spunto da questa frase portando Martha e George a inventare per ricrearsi: perché per restare in vita – sembra dire Albee – bisogna scegliere di spiazzare la morte, di vincere la depressione, la paura, forse anche di anticiparla. Il regista Latella, per fare questo, affila le parole come lame per duellare, ferire, affondare, difendere, arrancare, confondere. Le mette in bocca a interpreti dai quali tira fuori risorse attoriali nascoste, toni ed espressività inedite, energia interiore e fisica, con sfumature di segni che squarciano lo spartito testuale rivelandoci corrispondenze esistenziali. E sono Vinicio Marchioni e Sonia Bergamasco, affiancati da Ludovico Fededegni e Paola Giannini, che fanno delle parole e dei loro corpi armi esplosive, ma anche carezze di ambiguità e verità, non senza una forte componente umoristica. Ci seducono dall’inizio alla fine in un crescendo deflagrante che ci lascia, in ultimo, con un senso di grande compassione per la disperazione dei personaggi di questa, in fondo, grande storia d’amore.
“Chi ha paura di Virginia Woolf?”, di Edward Albee, traduzione Monica Capuani, regia Antonio Latella, con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini, dramaturg Linda Dalisi, scene Annelisa Zaccheria, costumi Graziella Pepe, musiche e suono Franco Visioli, luci Simone De Angelis. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo Fondazione Brunello e Federica Cucinelli. A Roma, Teatro Argentina, fino al 12 febbraio. In tournée a Firenze, Teatro della Pergola, dal 14 al 19; Viterbo, Bari, Fano.
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