Patrimoniale, ma non solo

Questa forma di tassazione, coi suoi pregi e difetti, per avere davvero efficacia deve essere parte di un progetto più vasto. Che coinvolga il fisco, la politica e l'intera società
patrimoniale

Una tassa patrimoniale è stata proposta nei vari Paesi, Italia compresa, nei grandi momenti di crisi; ad esempio nel 1920, dopo le grande guerra, come misura straordinaria e una tantum per finanziare la ricostruzione. In quei momenti, come oggi, la sua introduzione fu preceduta da accesi dibattiti, ai quali parteciparono i principali economisti del tempo. Dibattito che riprese nel 1945-1946, quando, per le stesse ragioni, si tornò a discutere dell’argomento.

 

E oggi? La situazione economica e sociale non è troppo diversa da un dopoguerra: senza bombe e carrarmati e con molti meno morti, ma con il Paese sull’orlo di un collasso e con il bisogno urgente di fare qualcosa di straordinario. Come suggeriva lo stesso Luigi Einaudi nel 1946, la legittimità etica di nuove imposte che comportano sempre nuovi sacrifici e l’aumento della pressione tributaria media (già molto alta in Italia), richiede un governo credibile e capace di offrire garanzie che l’introito di questa nuova tassa non tappi qualche buco solo temporaneamente, e che dopo qualche anno ne introdurremmo altre per altri buchi nel frattempo apertisi.

 

Io sono favorevole, e molto, ad una tassa sui patrimoni e sui capitali (compresi quelli finanziari), ovviamente ben disegnata dal punto di vista etico (i capitali e i patrimoni non sono tutti uguali: la prima casa non è la terza villa), perché ha tanti pregi e pochi o punti difetti. I principali pregi sono un riequilibrato rapporto tra la tassazione dei redditi e la tassazione dei patrimoni, e, soprattutto, tassare i patrimoni non ha, almeno nel breve e medio periodo, l’effetto nefasto di ridurre l’impegno nella creazione del reddito che invece produce ogni ulteriore imposta sul reddito (da lavoro e di impresa).

 

È comunque ovvio che un’imposta patrimoniale perché funzioni, sia sotto il profilo dell’efficacia sia sotto quello dell’equità, deve essere un elemento di un processo più complesso e articolato che sia una vera e propria riforma fiscale, nella quale siano presenti alcuni nuovi punti: la tassazione, seria, delle rendite finanziarie; la lotta, seria, all’evasione soprattutto di coloro che hanno residenze e capitali nei paradisi fiscali (compresi molti dei nostri industriali e top manager); la possibilità di detrazione dal reddito delle spese delle famiglie ad aliquote serie (che non siano minori dell’Iva, per rendere conveniente, e non solo etico, chiedere la fattura ai professionisti e ai medici). C’è insomma bisogno, come nei momenti seri e duri del recente passato, di un nuovo patto sociale, di una nuova fase costituente: così che, dopo questo governo tecnico che ha soprattutto lo scopo di spegnere l’incendio, si ricostruisca la casa comune su nuove basi, trovando le energie per superare i rancori e gli interessi troppo di parte di cui siamo stati capaci in questi ultimi decenni in cui è morto un mondo, senza che siamo stati capaci di generarne un altro soprattutto nella sfera pubblica (politica e mercati).

 

Non credo che possiamo aspettarci troppo dai partiti: sono troppo eticamente logorati da una fase post-ideologica nella quale la classe politica e dirigente non è stata nel suo insieme capace di rinnovamento etico. La ragione è legata ai segnali che essa stessa ha emesso: e, come ci insegna anche la teoria economica, i segnali che una realtà sociale emette sono anche i principali strumenti di reclutamento e selezione delle nuove leve. Negli anni del dopo crisi la classe dirigente (dei vari De Gasperi, Giordani, Berlinguer, Einaudi …), mostrava leader alle prese con gravi problemi da risolvere, e con stili di vita sobri. Questi segnali hanno attratto in quegli anni quei politici che, con le loro inevitabili ambiguità, hanno però saputo creare le condizioni per il miracolo italiano. Quando oggi i nostri leader sono associati a privilegi, denaro e potere, inevitabilmente la politica finisce per attrarre candidati non interessati al bene comune ma quegli obiettivi. Occorre dunque ripartire, mostrando nuovi dirigenti che girano con auto utilitarie, che fanno la fila alla posta e che vivono in case normali. Forse potremo sperare di attrarre nuovi giovani, capaci di nuovi miracoli, economici e civili.

 

Infine, si parla molto di crescita oggi, e si crede e si dice che questa dipenda dal governo. Personalmente credo che la crescita di ogni popolo dipenda dall’entusiasmo e dalla voglia di vivere della gente, che trova le motivazioni per lavorare, innovare, rischiare: il principale ruolo del governo è quello di dare fiducia, mostrare serietà, e non ostacolare con leggi inique e sbagliate la gente. Perché la principale “ricchezza di un popolo è la sua gente”, come ci ricordava l’economista civile veneziano G. Ortes.

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