Il pastore che arrivava sempre in ritardo
Sono arrivato anche questa volta in ritardo. Mi capita sempre, fin da piccolo. Per questo ho fatto il pastore, con le pecore è più facile che con gli uomini, loro non sono troppo veloci, e poi sono tranquille, docili. Quindi, ecco come sono andate le cose: me ne stavo sui pascoli, sulle alture e ho sentito dalle voci di vari pastori cosa è successo a Betlemme qualche giorno fa, quando il nostro cielo è stato solcato dalla grande cometa.
Che poi… che cosa è davvero successo? Non capivo molto dai loro racconti. Era nato un bambino, in una grotta, in una stalla. Non mi pareva un granché. Una bella notizia sì, ma che c’è di nuovo? Nascono centinaia di bambini qui, nelle stalle, nelle grotte, nelle catapecchie, anche nei campi, nelle nostre povere case di pietra paglia e assi. Dov’è la notizia? Qual è la novità?
Eppure questi pastori parlavano concitati, come se avessero visto chissà che cosa, anche se in realtà dicevano molto poco: una madre che allattava, i pochi doni che avevano dato a quella povera famigliola, un po’ di latte, il sorriso del padre, il bambino nella mangiatoia, tutto come si fa qui da noi che non abbiamo grandi case o palazzi. Non mi sarei mosso, avrei scosso la testa dopo i loro racconti… non fosse stato per la luce nei loro occhi.
Mentre parlavano concitati, riportando con dettagli eccessivi quei fatti banali, c’era una luce nei loro occhi, una luce che non avevo mai visto nel loro sguardo, una luce che rendeva belli, luminosi, i loro volti trasandati, abbruttiti dalla fame e dalla miseria, inscuriti dal sole, segnati in rughe dall’aria dei campi. Una luce… come se avessero visto Dio. Ed infatti così parlavano, come se avessero visto proprio Dio, anche se le loro parole non dicevano nulla di sensazionale.
Fu il loro sguardo a convincermi che dovevo andarci anch’io a Betlemme. E ci andai, ma arrivai in ritardo. Come al mio solito. Erano già partiti, mi dissero quelli del posto. Erano andati via, del resto non erano di lì, forse erano del nord, della Galilea. Mi recai comunque alla grotta che mi indicarono. Era vuota. O meglio, quasi vuota. C’erano un paio d’animali, un asino e un bue. Mi sedetti accanto a loro. Si stava bene in quella grotta, si respirava ancora un’aria particolare, come se quelle pietre, quella paglia trasudassero una grande pace.
Guardai il bue, guardai l’asino. Sì, io sono lento, ma nella mia vita, forse perché sono sempre stato più con gli animali che gli uomini, ho imparato a leggere lo sguardo delle bestie. A decifrare i movimenti dei loro corpi. Guardai l’asino: come tutti gli asini era simpatico, comunicativo, esuberante, non sapeva trattenere alcuna emozione, alcun sentimento dentro di sé, moriva dalla voglia di parlare. Guardai il bue: come tanti buoi, riflessivo, filosofo, di poche parole.
Dicevano gli occhi dell’asino: «Sì una grande cosa è successa qui. Ovvero niente di speciale. È nato un bambino, i sospiri del parto di sua madre, poi il pianto del neonato, l’eccitazione, l’emozione del padre. Niente di speciale. Eppure c’era una tale aria in questa stalla… come se i cieli si fossero aperti, e gli angeli fossero scesi qui, e cantassero, e si respirava profumo di Cielo». Guardai il bue che approvava, senza dire una parola. Gli occhi dell’asino, la sua schiena, le sue orecchie, il suo muso erano tutto un fermento d’emozioni, volevano raccontare: «Tutto normale, niente di speciale, certo…eppure mai visto nulla del genere. Era come se qui… come se qui fosse presente il nostro Creatore, come se fosse proprio qui Lui. Venivano dei pastori, ed erano anche loro frastornati da quest’atmosfera, da quest’aria che non si riusciva a definire, ma che penetrava nei loro cuori, si vedeva, erano sopraffatti di gioia, anche nel cuore di noi bestie entrava quell’aria, quella pace… un’aria divina. Eppure niente di speciale, ma una tale gioia, una tale emozione! Come se il cielo cantasse… forse l’ho già detto… Ah, lo so! Io lo so come andrà a finire! Sarà una cosa bellissima, ma poi… perché li conosco gli uomini, poi negheranno tutto o banalizzeranno, lo so! Diranno che qui non è successo nulla, negheranno il bambino, banalizzeranno il tutto facendone una grande festa pagana, lo so… negheranno pure che io e il bue siamo stati qui, diranno che siamo errori di traduzione di qualche antica profezia… ne diranno di tutti i colori, eppure qui è successo qualcosa di straordinario».
L’asino non stava nella pelle. Il bue approvava in silenzio e mi fissava col suo sguardo penetrante, da filosofo: «I genitori chiamavano quel bambino Jeshua’. Non mi pare che sia un nome della loro famiglia. Il padre si chiamava Josèf, e da quel che ho sentito tra i loro parenti nessuno aveva per nome Jehoshua’. Mariàm, la mamma, diceva che quel nome gliel’aveva suggerito un angelo. Sai che Joshua’ significa “il Signore salva”, e sai che qui da noi, nel nostro mondo ebraico, il nome vuol dire qualcosa, definisce una persona, spesso ne traccia la vocazione… il Signore salva… non è banale cos’è successo qui. Chissà che ne sarà di quel bambino. Chissà chi è».
Rimasi in silenzio, a gustare la pace che ancora c’era in quella grotta. E mi addormentai col sorriso sulle labbra, scaldato dall’asino e dal bue. Sognai, tranquillo, contento.
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Non si ha alcuna evidenza di come sia stato ritrovato questo scritto, che non fa parte di alcuna raccolta di testi religiosi o cronache dell’epoca. Quasi certamente si tratta di un documento non autentico, frutto della fantasia d’uno sconosciuto autore di epoca posteriore. Probabilmente. Eppure questo testo dice qualcosa di cosa è il Natale: nel totalmente ordinario della vita quotidiana accogliere lo straordinario della vita del Cielo.