Passi avanti nella lotta al cambiamento climatico
Le alluvioni, gli incendi e le tempeste che abbattono foreste hanno messo a tacere chi nega il cambiamento climatico. Mentre si inizia a capire che, se tante famiglie rischiano la vita sulle onde del Mediterraneo, non è solo per lasciare Paesi in guerra o per cercare una vita migliore, ma anche perché i campi dove pensavano di far crescere i figli sono stati resi aridi dalle nostre emissioni di gas serra.
Il numero di chi vorrebbe arginare il cambiamento climatico è in crescita, ma per riuscirci nei pochi anni in cui è ancora possibile, non bastano i volenterosi, occorrono decisioni politiche che mutino i comportamenti anche di quanti sono meno sensibili al problema.
Non basta più limitare le emissioni delle industrie, occorre stabilire per legge di rendere onerosa ad ogni attività che comporta impatto ambientale applicando una “carbon tax”, dopo avere lasciato ai cittadini il tempo necessario per evitarla modificando i propri comportamenti: la carbon tax è una imposta sul prezzo di acquisto commisurata alla emissione di gas serra dovuta a produzione o consumo del bene o servizio acquisito.
È facile essere ambientalisti se non se ne devono subire le conseguenze: la applicazione di una carbon tax sul gasolio dal parte del presidente Macron due anni fa, in Francia, ha quasi provocato una insurrezione e la nascita a dei “gilet gialli” e si è conclusa con una precipitosa retromarcia. In una democrazia organizzata non si possono imporre drastiche novità senza prima averne valutato gli eventuali risvolti iniqui ed avervi posto rimedio.
Nessuna reazione negativa naturalmente si è avuta a seguito del “superbonus”, pari al 110% del costo della coibentazione degli edifici, deliberato dal governo italiano per abbattere il 40 % delle emissioni del riscaldamento domestico.
Una generosità di stampo grillino così grande da indurre i cittadini (timeo Danaos et dona ferentes) a temere che a lavori effettuati possa spuntare qualche cavillo burocratico – molti ne sono stati posti – in grado di mettere a rischio il rimborso.
A mio parere sarebbe bastato poter applicare le agevolazioni edilizie già in essere senza ulteriori cavilli, deliberando per legge, almeno per tutte le città, l’adeguamento energetico obbligatorio entro dieci anni; garantendo però a chi non avesse risorse proprie, un prestito pari al costo dell’intervento da restituire in dieci anni, utilizzando i risparmi realizzati sul costo del riscaldamento.
Durante la pandemia le famiglie italiane hanno accumulato in banca oltre 200 miliardi di euro: lo stato indurrebbe così ad investirne una parte in modo più produttivo del lasciarli sul conto bancario senza interessi.
Per indurre molti condomini ad affrettare l’adeguamento, con vantaggio per il comparto edilizio, si dovrebbe deliberare la “carbon tax” sui combustibili per il riscaldamento con due anni di preavviso. Dalla “carbon tax” lo stato ricaverebbe risorse per sanare eventuali risvolti iniqui sui cittadini più deboli e soprattutto risorse per ridurre il peso del debito pubblico sulle future generazioni.
Se la “carbon tax” non venisse deliberata, si lascerebbe spazio per farlo alla Comunità Europea, in cerca di risorse per finanziare i 750 miliardi di Eurobond che sta mettere sul mercato, 220 per l’Italia.
Questi Eurobond potrebbero essere invece sottoscritti come titoli infruttiferi a lunga scadenza dalla Banca Centrale Europea: l’Euro non ne soffrirebbe, al massimo si indebolirebbe leggermente rispetto al dollaro, con vantaggio per le esportazioni europee.
Alla Comunità Europea rimarrebbe il recupero dalle multinazionali delle imposte eluse nei paradisi fiscali ed anche la “carbon tax” su tutti prodotti di importazione, in proporzione alle emissioni di gas serra provocate dalla loro produzione.
Un dazio utile a mantenere competitivi i prodotti ottenuti con energie rinnovabili, con quelli prodotti con combustibili di origine minerale. La futura produzione di acciaio all’idrogeno di Taranto potrà essere competitiva con l’acciaio di importazione solo se questo sarà gravato da una “carbon tax”, utile anche a convincere i Paesi esteri, in cui si respira la stessa nostra atmosfera, ad adottare lavorazioni meno impattanti.
Negli Stati Uniti, il presidente Biden ha scelto di rientrare nell’accordo sul clima di Parigi, ha bloccato per sei mesi i permessi di nuove trivellazioni nell’Artico – probabilmente anche per le nuove trivellazioni con la tecnica del Fracking – e si propone di tassare i prodotti in base al loro effetto serra. Biden ha, inoltre, ripristinato i limiti posti da Obama alle emissioni di metano, il gas che se liberato nell’atmosfera ha un effetto serra venti volte superiore all’anidride carbonica.
Chissà se si spingerà fino ad accettare la applicazione di una carbon tax anche per il LNG, il gas naturale liquefatto che intende esportare in Europa al posto di quello gassoso che potrebbe arrivare in Germania dalla Russia col gasdotto Nord Stream 2 in costruzione.
L’LNG americano si estrae col Fracking, cioè con trivellazioni orizzontali a profondità di circa 1.000 metri e fratturazioni delle rocce tramite esplosivi ed acqua ad alta pressione, che oltre a provocare terremoti rende possibile che parte del metano raggiunga le falde freatiche e da queste si liberi nell’atmosfera.
La ripresa economica mondiale ha fatto già salire il prezzo del grezzo Brent oltre i 70 dollari al barile, rendendo conveniente aumentare le trivellazioni con Fracking con nuove emissioni di metano: speriamo che Biden sappia convincere Camera e il Senato a resistere alle sirene dei petrolieri americani.