Passi avanti nel dialogo con l’Ue
La stampa occidentale è ormai pronta a giudicare ed etichettare il premier ungherese e il suo governo secondo schemi interpretativi apparentemente ovvi: dittatura, disprezzo dei valori europei, oppressione della stampa. Il recente discorso del capo di governo ungherese, pronunciato il 15 marzo in occasione della Festa nazionale del Paese magiaro, ha suscitato nuova indignazione e critiche pregiudiziali di politici e burocrati europei nei confronti del primo ministro.
Rievocando gli ideali della gioventù rivoluzionaria dell’Ottocento, Orbán ha affermato: «Non saremo una colonia. Come una nazione europea chiediamo parità di trattamento. Non saremo i cittadini europei di seconda classe». È, certamente, un’affermazione provocatoria, sulla scia dei combattenti per la libertà del 1848, che ha suscitato reazioni di allarme. Grande, infatti, è la preoccupazione per alcune misure approvate dal governo ungherese, viste come una limitazione della libertà di stampa, dell’indipendenza della magistratura e della banca centrale. Scarseggiano, però, le analisi approfondite e ponderate, come quella di Stefano Bottoni su Limes, che potrebbero aiutare a capire meglio cosa si cela dietro le accuse che «trascurano spesso un’analisi nel merito delle proposte dell’unico leader euro-orientale dotato di una visione strategica».
Infatti, i Paesi dell’Est europeo sono arrivati a un punto critico nella gestione dell’eredità comunista, che ormai non è più un problema ideologico, ma piuttosto una mentalità e una forma di vita che perdura fino a oggi. Il crollo del muro di Berlino ha provocato cambiamenti a livello politico nelle istituzioni, ma difficilmente e molto lentamente sta incidendo sul modo di pensare e di vivere della gente.
Durante il governo socialista precedente era già chiaro che bisognava cambiare rotta e demolire le strutture dell’assistenzialismo legato ai vecchi modelli di welfare comunista, ma solo Orbán ha avuto il coraggio di toccare certi privilegi e introdurre delle riforme in favore di un’economia basata sul lavoro. Nel 2010, 3,8 milioni di persone lavoravano in Ungheria, su 10 milioni di abitanti, ma 1,2 milioni di loro non pagavano le tasse. Evasione fiscale, quindi, interi strati sociali abituati a vivere esclusivamente di contributi e aiuti statali, un alto tasso di pensionati d’invalidità rispetto agli altri Paesi europei.
Il governo socialista ha lasciato un Paese super indebitato, fortemente esposto alla speculazione di gruppi d’interesse a livello internazionale. Viktor Orbán, disponendo di una maggioranza di due terzi del Parlamento, ha sfidato anche le banche e le imprese multinazionali presenti sul territorio, con un’imposta “eccezionale di crisi” e ha introdotto, per primo in Europa, una tassa sulle banche. Non bisogna, quindi, meravigliarsi della reazione di chi vede minacciati i propri interessi.
L’Ungheria vuole uscire da una trappola che, secondo la logica dell’Ue, sarebbe affare interno degli ungheresi. Un’operazione del genere richiede decisione e Orbán, nel suo progetto di operare un vero cambiamento del sistema, ha voluto agire con urgenza e realizzare un’agenda politica molto fitta, affrontando diverse problematiche tutte insieme e saltando certe tappe del processo democratico, il dialogo con le parti sociali prima di tutto. Il risultato è stato senz’altro quello di una democrazia centralizzata, che tende a realizzare un assolutismo benevolo e illuminato, sostenuto da una sovranità dei due terzi.
Auspicabile sarebbe per l’Ungheria che questo fosse uno scenario di transizione, seguita da uno sviluppo verso uno Stato sussidiale e una democrazia più partecipativa. L’Europa dovrebbe trovare nuove vie per facilitare questo processo, metodi più creativi delle pressioni e delle sanzioni. Recenti sviluppi di dialogo fra le istituzioni dell’Ue e il governo ungherese fanno sperare.