Passeggiando al salone del libro

Sfogliando libri tra montagne di carta, colline d’affari e pianura d’idee. La frana della cultura italiana. Cosa significa oggi diventare “editore di contenuti”
Salone Torino

I numeri del Salone internazionale del libro di Torino sono noti: quattro padiglioni al Lingotto Fiere, quasi cinquantamila metri quadri di superficie, 27 sale convegni, 330 mila visitatori, 1.200 editori, più di 1.200 incontri e dibattiti, 2 mila ospiti, 3 mila giornalisti e operatori media accreditati nei cinque giorni d'apertura. Questi i numeri che fanno del Salone la massima manifestazione in Italia dedicata all'editoria, alla lettura e alla cultura e fra le prime d’Europa. A fronte di un mercato che cala in quasi tutti i settori.

 

Ma i numeri dicono poco, se non la sofferenza a tratti angosciante di un settore, quello dell’editoria, che somma la crisi economica generale – che come si sa colpisce in primo luogo le spese non necessarie, i “consumi voluttuari”, tra cui in testa ci sono quelli “culturali” – con una delle rivoluzioni più sconvolgenti conosciute dalla storia dell’umanità, quella digitale, o numerica, o informatica che dir si voglia, che sta erodendo lo spazio di carta e cultura, educazione universitaria e ricerca, per indirizzare gli utenti verso schermi di tutte le taglie dentro i quali imperversa tanta sub-cultura, tanta ricerca da far ridere i polli, tanta informazione zeppa di bufale.

 

Sia detto sopra o sotto le righe, poco importa, al Salone di Torino c’è poco di nuovo. Che ci sia Corradino Mineo che gareggia nell’alzare il volume per farsi sentire con Cristina Parodi o con il comico di turno non è che cambi la vita alle persone. Le quattro grandi editrici (Mondadori, Rizzoli, Gems e Feltrinelli), quelle che stanno dominando il mercato con rischio di quasi-monopolio se Mondadori fagociterà Rizzoli, battono cassa, e attirano la gran parte dei visitatori con i titoli gridati e i nomi sicuri, con tanto di casse e cassiere e palestrati buttafuori che controllano che non si sottraggano volumi alle pile di romanzi che creano un effetto canyon nei loro stand.

 

I piccoli e medio-piccoli, e c’è anche la nostra Città Nuova, non possono competere con tali colossi e fanno un po’ la figura delle cenerentole. Un po’ tristi perché la massa non passa dai loro stand, un po’ vestiti male perché non ci sono i soldi, un po’ disordinati nelle loro esposizioni… Gli editori cattolici pure non fanno una figura straordinaria, anche se la qualità dei loro libri è stratosferica dal punto di vista culturale rispetto alla media del resto del salone, meno forse dal punto di vista del packaging e del marketing.

 

Ho l’impressione che stiamo raccogliendo i frutti della frana della cultura italiana iniziata con l’approvazione della Legge Mammì sul sistema televisivo italiano, era il 6 agosto 1990, 25 anni fa, quando Silvio Berlusconi ottenne di poter avere tre emittenti televisive tutte per lui. Intendiamoci, il fondatore di Forza Italia faceva il suo lavoro, influenzava i deputati che voleva, aveva un suo piano industriale e politico preciso. Legittimo. Ma chi ci ha patito è stata la cultura italiana nel suo complesso, schiacciata da un sistema mediatico, non solo televisivo, dominato dai modelli statunitensi, infarcito di stupidità e di non-cultura, o peggio, sub-cultura, sistema per il quale anche il servizio pubblico è franato.

 

Penso che abbiamo toccato il fondo. Ora si tratta di risalire. Cosa mi fa dire che ciò sarà possibile? In primo luogo una legge dello sviluppo dei mass media: i media si affiancano ma non si sostituiscono, quindi la carta non morirà, ma anzi troverà la sua “nicchia”. Secondo, la cultura web si sta accorgendo che il trash, la spazzatura culturale alla fine non sazia, e sta quindi svoltando (seppur timidamente) verso una selezione più accorta dei suoi contenuti. Terzo, le community, cioè quei gruppi che si creano grazie e attorno al web sono dei potenziali mercati con ottime prospettive, ma solo a condizione di riuscire a proporre idee all’altezza dei tempi.

 

Ecco, innanzitutto bisogna osare, diventare editori di contenuti (content publisher), prima ancora che editori di un media preciso, riviste, giornali, libri, ebook… I libri di carta beneficeranno di questi contenuti e si sosterranno con altri media. Perché l’Italia merita più cultura di quella che oggi riesce a sfornare.

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