Pasolini, un profeta disarmato?
Nel 2015 saranno quarant’anni dalla sua morte, avvenuta nel 1975. Ma le celebrazioni sono già iniziate, cominciando da una straordinaria rassegna di foto, documenti e filmati al romano Palazzo delle Esposizioni fino al 20 luglio e destinata a girare per l’Italia.
Chi era realmente Pasolini, cosa c’era dietro tanta creatività, tanta intelligenza, e tanto furore di vita? C è una foto di Henri Cartier-Bresson. Ritrae Pasolini in impermeabile e occhiali scuri nel popolare quartiere del Mandrione. Il poeta sorride e parla con i ragazzetti della baraccopoli. Lontano, file squallide di palazzacci.
Era la Roma degli anni Cinquanta. Il ventottenne professore friulano arrivava insieme alla madre e al padre. Si stabiliva in «una casa senza tetto e senza intonaco, una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino al carcere», di Rebibbia. «Polvere d’estate, paludi d’inverno. Mucchi di spazzature», scriveva. Ma Pier Paolo aveva in cuore «sogni integri di poesia».
Ce n’è un’altra, di foto, fra le decine nella rassegna. Un giovane Pasolini nella scuola di Ciampino, insieme all’allievo Vincenzo Cerami. Il professore del Nord, dalla voce dolce, bravissimo anche sul campo di calcio – ma impiegava tre ore per arrivare da Roma! –, e il ragazzino immigrato, destinato a un successo duraturo ancora oggi.
Immagini di una città e di una periferia del dopoguerra dove Pier Paolo impara a conoscere il mondo del sottoproletariato, l’Italia “nuda e formicolante”, e una Roma povera e vitalissima. La farà rivivere, nel linguaggio, nel dolore, nelle speranze, nel romanzo “Ragazzi di vita” del 1955: uno choc nel mondo letterario italiano, paludato, a contatto con la lingua gergale dei ladruncoli e delle prostitute delle borgate. Diventa amico di ragazzi del luogo come Ninetto Davoli e Franco Citti. Lavorano nei suoi film. Il suo primo è "Accattone", del 1961: ignaro di tecnica cinematografica, si inventa un suo stile – né neorealistico, né da Nouvelle Vague – ma "pasoliniano", ossia intimamente classico, tragico e al contempo vitalistico e moderno.
Da allora, il cinema entra nella vita e nell’opera dello scrittore, che frequenta la Roma degli intellettuali – Calvino, Moravia, Sandro Penna, Ungaretti… –, diventa celebre, non abita più in periferia ma in un buon quartiere, insieme alla madre Susanna, cui è legato fortissimamente.
Ma rimane un "diverso". Non solo per l’omosessualità, che suscita disapprovazione – viene espulso dal Partito comunista –, ma per le sue prese di posizione, con gli anni sempre più decise se non furenti, contro una Roma, e una società italiana, che si sta "perdendo".
Pasolini si fa profeta di un futuro di squallore culturale e morale che invaderà il Belpaese. Nel ’66, ammalato d’ulcera in ospedale, scrive sei tragedie in versi. Osserva la devastazione che la società dei consumi sta portando nell’Italia di un tempo, povera, contadina e onesta; vede Roma, per lui città-simbolo dell’accoglienza e dell’innocenza, imbruttita dalla speculazione edilizia e da una politica "disumana". In pieno ’68 si schiera dalla parte dei poliziotti, figli dei contadini, contro i giovani borghesi rivoluzionari: un altro scandalo nella cultura dell’epoca. Insiste a condannare la televisione come strumento di diseducazione culturale.
Ci sono battaglie legali, contestazioni. Pasolini è un profeta "disarmato" – la sua arma: la parola, il cinema, la scrittura è contestata – ma che non disarma. Prevede lucidamente un'Italia, un'Europa, impoverita socialmente e culturalmente. Da film duri come "Porcile" all’utimo, terribile film "Salò": immagine devastante e disperata.
La disperazione sembra infatti, con l’andare degli anni, la cifra caratteristica dell’arte e del pensiero pasoliniano. Non è forse lui uomo e artista di una "disperata vitalità"?.
Questo atteggiamento prende le mosse da lontano, dalla giovinezza di un ragazzo ipersensibile e coltissimo, dalla morte del fratello, dalla venuta a Roma a trovare lavoro, allo sguardo sull’umanità più lacerata.
Forse il problema di fondo di Pasolini è quello del dolore. A cui egli non trova riposte. Non in un Dio che sembra abbia abbandonato il mondo o nella chiesa «trionfalistica e dimentica dei poveri» di Pio XII. Nel 1964, quando gira "Il vangelo secondo Matteo" – che dedica a papa Giovanni –, Pasolini ha un incontro di luce. Per quanto accusato di marxismo, il film brilla di una luminosità accecante: l’"ateo" Pasolini ha capito filmicamente il Cristo più di tanti colleghi. La vena lirica, intimamente mistica oltre che sociale di Pier Paolo, trova sfogo in un linguaggio scabro e dinamico commovente.
Ma è una parentesi. Pasolini vede che si sta distruggendo l’uomo, più di molti altri del suo tempo. E lo grida in "Salò", dopo ave rinnegato l’esplosiva esuberanza dei suoi tre film della "Trilogia della vita" ("Decameron", "Il fiore delle Mille e una notte", "I racconti di Canterbury").
Capita anche a lui, nel 1975 di essere vittima della violenza. Cercata? La sua fine rimane un mistero. Nelle ultime foto ha gli occhi bui: è entrato in una "notte", come un Giobbe del secolo ventesimo. Il buio di oggi egli l’ha previsto e l’ha, in certo modo, pagato. La rassegna, con la ricchezza dei documenti, dei filmati, degli inediti esposti – i suoi pittori preferiti, gli studiosi, i suoi dipinti e ritratti –, lo documenta. Da non perdere.
"Pasolini Roma". Roma, Palazzo delle Esposizioni. Fino al 20 luglio (catalogo Palazzo Esposizioni)