Prima partita con donne in tribuna

Timidi segnali di apertura alle donne di alcune attività finora prerogativa maschile. Ma siamo ancora ben lontani dalle “pari opportunità”. La sfida al wahhabismo
Reema bint Bander Al Sa'ud, principessa dell'Arabia Saudita

A Gedda è finita con un risultato esaltante per i padroni di casa dell’al-Ahli la partita contro l’al-Baten del 12 gennaio scorso: 5-0. Con 34 punti al suo attivo, l’al-Ahli si avvicina così a due sole lunghezze dalla capolista al-Hilal (di Riad). La sconfitta è stata dura per l’al-Baten (di Hafar), che rimane nona in classifica con 20 punti. Stiamo parlando della 17° giornata della Pro League, la serie A del campionato di calcio dell’Arabia Saudita. Ma ben più che per il risultato, la partita passerà alla storia perché per la prima volta ad assistere dagli spalti ad una gara di atleti maschi non c’erano solo uomini, ma anche donne.

Un primo segnale di apertura del mondo dello sport saudita alle donne si era avuto nell’autunno scorso con la nomina della principessa Reema bint Bandar Al Sa’ud a presidente della Federazione saudita per le comunità sportive. La 40enne principessa reale è infatti una dinamica e creativa imprenditrice, attiva nella promozione del lavoro e della salute delle donne.

Dopo l’annuncio di settembre da parte di re Salman che aboliva il divieto per le donne (da sempre in vigore) di accedere ad eventi sportivi, ci sono voluti quattro mesi per predisporre le “sezioni per famiglie”, comprensive di servizi e spazi di preghiera riservati alle donne. Per adesso in tre stadi: a Gedda, Riad e Dammam. Alle sezioni per famiglie (10 mila biglietti disponibili lo scorso venerdì 12 gennaio) possono accedere insieme padri, madri, ragazzi e ragazze e gruppi familiari in genere; alle altre sezioni potranno accedere (come sempre) solo gli uomini.

L’evento è stato preceduto negli ultimi due anni da altri segnali: nel dicembre 2015 le donne saudite hanno per la prima volta goduto del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni comunali; nel 2017 è caduto il divieto sui cinema; giovedì 11 gennaio scorso, sempre a Gedda, è stato inaugurato ufficialmente il primo salone per la vendita di auto dedicate ad un pubblico femminile, preludio all’abolizione del divieto di guida per le donne e la concessione ad esse della patente, prevista per giugno 2018.

Per le donne saudite (molte delle quali da anni spingono per ottenere condizioni migliori) questi segnali di apertura non sono certo la soluzione di tutti i loro problemi, ma sembrano almeno indicativi di una tendenza. Resta comunque la pesante e onnipervasiva tutela maschile: senza il consenso del tutore (padre, marito, figlio o parente che sia) una donna saudita non può sposarsi, chiedere un passaporto e viaggiare all’estero, aprire un conto bancario, essere titolare di attività commerciali, addirittura curarsi o uscire di prigione dopo aver scontato una pena detentiva, ecc.

Il promotore di queste ed altre iniziative “di rinnovamento” è Mohammad bin Salman al-Saud (spesso citato come MbS), il 32enne principe designato lo scorso anno da re Salman, suo padre, come erede al trono. MbS è infatti il promotore di un progetto chiamato “Vision 2030” volto a traghettare il Paese verso un’impostazione più moderata dell’Islam rispetto all’attuale rigido wahhabismo salafita che è legato a doppia mandata con la dinastia Saud fin dalle origini del regno negli anni Trenta del secolo scorso.

C’è un grande bisogno del lavoro delle donne nel futuro del regno saudita, e di ridurre i privilegi. Il petrolio (90% degli introiti del regno) non durerà ancora per molto, e già fin da ora il suo prezzo scende a causa della disponibilità di altre risorse energetiche (olio di scisto) e dello sviluppo in crescita di fonti alternative o rinnovabili.

Si comprende meglio perché uno dei punti chiave del programma di riforme lanciato da MbS sia la partecipazione femminile al lavoro se si considera (senza qui neppure minimamente sfiorare il difficile discorso delle Pari Opportunità) che le donne costituivano nel 2015 solo il 13% della forza lavoro nativa. E anche se oggi, dopo meno di tre anni, questo dato è già salito al 22% resta comunque molto basso. Non si può certo immaginare lo sviluppo di una economia differenziata con le donne del Paese (quasi 50% delle quali con studi elevati) rinchiuse nel soffocante harem della tutela maschile e con i costi che comporta un esercito di 500 mila autisti immigrati solo per portare i figli a scuola, fare compere al supermercato o anche solo per spostarsi.

Un progetto con queste implicazioni pesta naturalmente i piedi a una cultura religiosa che è cresciuta per quasi un secolo teorizzando l’inferiorità delle donne come sistema. Questa è la vera sfida, quella culturale. Molto più ardua di qualsiasi partita di calcio.

 

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