Parti in casa: una tendenza in crescita

La pandemia ha dato un'ulteriore spinta alla decisione di dare alla luce i bambini in luoghi diversi dall'ospedale. Ci sono però opinioni diverse dei professionisti in merito alla sicurezza di questa scelta
Un'ostetrica visita un neonato e la sua mamma a casa dopo il parto. Foto via Ansa/EPA/LUKAS BARTH-TUTTAS

La cosa è tristemente tornata in tempi recenti agli onori delle cronache per gli ulteriori sviluppi di un fatto tragico: il tribunale di Trento ha condannato per lesioni mamma, papà e due ostetriche in seguito ad un parto podalico avvenuto in casa, che ha comportato un’asfissia neonatale e danni permanenti alla piccola.

Per quanto il caso di specie non debba portare a demonizzare la scelta di partorire in casa tout court, in quanto la condanna è arrivata appunto perché questa decisione è stata presa contrariamente al parere medico e a quanto prevedono i protocolli (che escludono il parto naturale, tanto più in casa, per i podalici), la condanna ha “fatto rumore” perché arriva in un momento storico in cui la pandemia ha incrementato la tendenza in atto già da diversi anni a decidere di non partorire in ospedale; che, per quanto possa avere motivazioni comprensibili alla base, rimane comunque oggetto di notevoli discussioni tra chi ne sostiene la sicurezza in caso di gravidanze fisiologiche e chi invece sottolinea come non sia mai possibile escludere a priori l’esigenza di un immediato intervento medico eseguibile soltanto in ospedale.

Partiamo, come sempre si dice, dai dati: quanti sono i parti in casa in Italia? Innanzitutto va detto che parliamo di stime, in quanto non esistono dati precisi a livello nazionale in ragione delle differenze con cui questi vengono comunicati e registrati nelle singole regioni e finanche nei singoli distretti sanitari. I dati Istat accennano ad un tasso tra lo 0,15 e lo 0,2% (parliamo quindi di poco meno di mille bambini) con notevoli disparità a livello regionale: tenendo conto però che nel 2019 la stima era allo 0,1%, si tratta praticamente di un raddoppio.

Le ragioni sono molteplici, e affondano le loro radici già negli anni Ottanta e Novanta; epoca in cui si è iniziato a prendere coscienza dell’ipermedicalizzazione del parto, con protocolli che negli anni si sono sempre più infarciti di visite ed esami – naturale quindi che molti, anche tra medici e ostetriche, si siano chiesti se davvero fossero tutti sempre utili – ed un ricorso ai parti cesarei spesso eccessivo – secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità si è arrivati nei primi anni 2000 ad un picco del 35% (addirittura il 55,3% in Campania) contro il 15% raccomandato dall’Oms, e tuttora siamo al 30% circa. Il tutto, si osservava, non solo per ragioni di eccessiva enfasi sulle possibili complicazioni del parto naturale rispetto a quelle del cesareo, ma anche di pura convenienza economica (in virtù dei finanziamenti riconosciuti dal Servizio sanitario nazionale, più elevati nel caso dei cesarei).

A questo si è aggiunta la sempre maggiore consapevolezza del problema della violenza ostetrica: visite e procedure mediche effettuate senza consenso, abusi fisici e verbali, o più in generale il trattamento non rispettoso della dignità della partoriente e del neonato. Di qui un crescente movimento “culturale”, mirato a “riappropriarsi” del momento della nascita come fondante per la mamma e per il bambino, libero quanto più possibile da ogni orpello medico in quanto avvenimento del tutto naturale; e da farsi nel comfort e nell’intimità della propria casa, o di una casa maternità (centri non ospedalieri gestiti da ostetriche).

Sono quindi nate associazioni come l’Associazione nazionale ostetriche parto a domicilio e casa maternità. Un ristrettissimo gruppo di ospedali, con capostipite il Sant’Anna di Torino sin dal 1997, hanno iniziato ad offrire la possibilità di essere seguite gratuitamente per il parto in casa dal proprio personale. È stata anche istituita una giornata internazionale del parto in casa, il 6 giugno.

Negli ultimi anni hanno poi preso piede anche figure non sanitarie, come quella della doula: si tratta di una figura professionale sociale (disciplinata dalla legge 4/2013) che si occupa del sostegno pratico, affettivo e relazionale e del benessere della donna e della famiglia, dalla gravidanza fino al primo anno di vita del bambino. Una figura, si potrebbe osservare, nata anche per sopperire a quel sostegno che una volta le neomamme ricevevano dalla rete familiare e di comunità e che ora non ricevono più, ma di cui sentono evidentemente la necessità.

A dare un’accelerazione alla tendenza dei parti in casa è stata la pandemia: il fatto che all’epoca non fosse consentito nemmeno ai papà entrare in ospedale, che le madri dovessero affrontare tutto da sole sottoponendosi a continui tamponi, è stato comprensibilmente traumatico per molte donne, che nel caso di un parto successivo hanno voluto non rivivere la stessa esperienza.

Secondo i dati raccolti in base alle comunicazioni date dalle ostetriche domiciliari libero professioniste, purché i protocolli siano rispettati – ossia che il parto in casa avvenga solo nel caso di gravidanze fisiologiche a basso rischio (cioè senza alcun genere di patologia, complicazione né anomalia per la madre o per il bambino), a termine, non gemellare, con un ospedale a meno di 30 minuti di distanza, e preferibilmente con una donna non al primo parto – i profili di sicurezza in quanto ad esiti di salute per madre e bambino non sono significativamente diversi: la mortalità è sempre attorno allo 0,1%, con il vantaggio di una riduzione di oltre la metà di interventi “invasivi” come l’episiotomia o l’utilizzo di ventose o forcipi, nonché di complicazioni come emorragie e infezioni.

Va aggiunta poi, su un piano molto più “veniale”, la questione costo: mentre partorire in ospedale, almeno nel pubblico, è gratuito, affidarsi ad ostetriche domiciliari (da protocolli devono essere almeno due) costa 2000-2500 euro (il che ha guadagnato ad alcune ostetriche, particolarmente “tenaci” nel promuovere il parto a domicilio soprattutto sui social, l’accusa di aver semplicemente “fiutato il business”). Alcune Regioni, come Piemonte, Emilia Romagna, Lazio, Marche, e le Province di Trento e Bolzano, prevedono un rimborso parziale; ma rimane comunque un impegno economico.

C’è da dire però che il confronto tra i dati domestici ed ospedalieri può non essere sempre direttamente fattibile, in quanto negli ospedali confluiscono evidentemente anche tutti quei parti a rischio che già di per sé hanno maggior probabilità di complicazioni: non sempre i dati sono disponibili in maniera scorporata tra le due categorie, e quindi dire che “nel complesso” gli esiti di sicurezza sono identici può in questi casi essere fuorviante.

E infatti la Società italiana di neonatologia, in una nota, ha citato uno studio israeliano secondo cui con il parto in casa il rischio di complicazioni per mamma e neonato si triplica e la possibilità di mortalità neonatale è 2,6 volte maggiore rispetto ad un parto in ospedale. Per cui, per quanto i neonatologi riconoscano che in buona parte dei casi sarebbe tecnicamente possibile partorire senza intervento medico, la Sin ribadisce la sua posizione di «sconsigliare vivamente la scelta di partorire a domicilio, poiché anche nelle condizioni ideali non è possibile escludere con certezza complicazioni per la salute di mamma e neonato». Complicazioni ovviamente più facilmente gestibili in ospedale, se non altro perché, per quanto nel caso di parto a domicilio venga comunque preventivamente allertato sia l’ospedale di riferimento che la centrale operativa del 112, non ogni tipo di intervento è fattibile subito e direttamente dall’ostetrica in casa, e il fattore tempo è fondamentale.

«Anche in caso di parto fisiologico – afferma poi la Sin – ci sono tutti i controlli post-parto da fare per la valutazione completa sullo stato di salute del neonato come lo screening metabolico allargato, lo screening per le cardiopatie congenite, lo screening audiologico, il test del riflesso rosso, la valutazione ed il monitoraggio dell’iperbilirubinemia e ipoglicemia, calo ponderale, che possono essere effettuati soltanto in una struttura ospedaliera, grazie ad una équipe multidisciplinare altamente qualificata e specializzata».

Va detto che i genitori possono comunque richiedere, anche in caso di parto in casa, che questi vengano effettuati in seguito; ma si tratta comunque di un allungamento dei tempi che potrebbe risultare cruciale nell’individuare precocemente una patologia. «Non è un caso che anche in Olanda, patria del parto a domicilio, questa pratica ha subito una costante e progressiva riduzione, passando da circa il 40% negli anni ‘90 al 17% del 2017 – continua la nota della Sin – . L’ospedale è sempre il posto più sicuro dove partorire e comprendendo le ragioni di chi vorrebbe farlo presso la propria casa, la Sin è impegnata da anni in attività tese a demedicalizzare l’evento parto, sia favorendo il comfort e l’intimità anche in ospedale, sia migliorando strutturalmente le sale parto, sia attraverso il contatto pelle a pelle mamma-neonato, il rooming-in e incentivando l’allattamento al seno».

Peraltro, per chi vuole avere un parto più “naturale” possibile, non è nemmeno detto che piccolo sia bello: secondo i dati della Società italiana di ostetricia e ginecologia, infatti, le strutture al di sotto dei 500 parti annui (quelli che si vorrebbero chiudere, in quanto al di sotto della soglia minima di sicurezza) hanno tassi di parti cesarei più alti, per quanto con una spiccata variabilità nord-sud. Un fenomeno spiegato con il fatto che appunto là dove c’è maggior attività si è più preparati a prevenire complicanze che possano portare al cesareo, o a gestirle in maniera diversa dal bisturi.

La risposta alle giuste rivendicazioni di chi desidera un parto meno medicalizzato quindi, sostengono le varie associazioni di categoria mediche, più che il parto in casa dev’essere la creazione di un ambiente adeguato e confortevole a livello ospedaliero e l’effettivo rispetto del piano del parto, che ogni donna può compilare presso l’ospedale in cui partorirà per esprimere le proprie preferenze rispetto alla nascita (prassi consolidata in alcuni Paesi esteri, ma troppo spesso non rispettata in Italia).

Ed esistono in effetti diversi ospedali che si sono mossi in questo senso: un punto di riferimento è ad esempio la rete “Ospedali amici delle bambine e dei bambini” promossa dall’Unicef, che riunisce quelli che rispettano una serie di standard di cure adeguate prima, durante e dopo la nascita – in particolare il sostegno all’allattamento al seno a richiesta e non a orario, il contatto pelle a pelle nelle prime ore di vita, il rooming in (ossia lasciare insieme mamma e bambino in parallelo al nido, che rimane sempre comunque disponibile se la mamma ha bisogno di riposare), il seguire la mamma anche nelle prime settimane successive alla dimissione. Ci sono poi quelli che predispongono sale parto che prevedono la possibilità di partorire anche in acqua o accovacciate (quindi non necessariamente sul lettino), o stanze in cui anche il resto della famiglia può immediatamente raggiungere la neomamma.

Il consiglio dunque da parte di questi professionisti è quello, ancor prima di optare per il parto in casa se si è idonee, ad informarsi presso i punti nascita di quali sono i percorsi possibili per ricevere un’assistenza quanto più vicina possibile alla propria sensibilità.

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