Parole vuote, radici profonde
Quante vuote parole si sono spese e ancora si stanno pronunciando sull’Europa. Il nostro paese, l’Italia, che è fra i soci fondatori, quanto a europeismo dovrebbe avere le carte in regola, essendosi trovato sempre nel drappello di testa a disputare la volata di ogni traguardo di tappa. Soprattutto quando si è trattato di promuovere il processo di integrazione sul piano dei princìpi: cioè delle idealità. Meno brillante, ma pur sempre dentro i tempi massimi consentiti, quando il traguardo da superare aveva una valenza economica. Tutto bene, allora? A por mente a quanto si ascolta e si vede recitare sulla scena della nostra politica nazionale non si direbbe. Da mesi ormai si prende a pretesto il tema europeo per attizzare le zuffe che contrappongono governo e opposizione, impegnati a delegittimarsi a vicenda. E, quel ch’è peggio, sollecitando interventi di giudizio esterni che rammentano i tempi più bui della nostra storia. Triste spettacolo. Che si aggiunge ad un altro malvezzo caro alle dittature (di destra o di sinistra): quello di pretendere che basti affermare con decisione un assunto, per farlo diventare vero e credibile. A dispetto della verità storica, non poi tanto remota, assistiamo ancora oggi a questa gara di riciclaggio. Tutti hanno il diritto di cambiare parere,ma per favore, lo si faccia in sordina e con umiltà. Sono questi comportamenti, mi pare di poter affermare, che costituiscono il maggiore attentato alla fede europeista che la nostra gente avrebbe invece così profonda, per vocazione naturale. E ciò impedisce inoltre di affrontare i problemi più impegnativi che lo stesso scenario europeo viene prospettando a breve scadenza, come quelli riguardanti la nuova costituzione e l’allargamento dell’Unione. Al di sopra di questo scomposto vociare, è risuonato l’invito del presidente Ciampi a ricercare il dialogo costruttivo, là dove la rissa e la reciproca denigrazione non possono che nuocere a tutti i contendenti e, massime, al paese. Il monito è ancora inascoltato. Un’altra voce si è levata da Roma, sull’altra sponda del Tevere: quella di Giovanni Paolo II che, parlando a metà gennaio, in occasione del tradizio- nale scambio di auguri al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha richiamato l’attenzione sulle grandi sfide che investono l’umanità oggi. Questa volta lo scenario è quello mondiale. Esso presenta un “orizzonte oscuro” che “sorprende e intimorisce”, dopo le attese suscitate dal grande cambiamento e dalle promesse di libertà degli anni Novanta. Lampi di guerre si proiettano sinistri dall’Afghanistan alla Terra Santa. Ombre destabilizzanti gravano sull’AmericaLatina, dove “disuguaglianze sociali, narcotraffico, fenomeni di corruzione e violenza rischiano di minare le basi della democrazia “. A fronte di ciò possiamo ricordare “significativi passi avanti nel dialogo” in molti paesi, dai Balcani, all’Africa, alla Cina, ed una lunga lista di interventi di mediazione condotti a buon fine. “Tra i motivi di soddisfazione – sottolinea ancora il papa – va senz’altro menzionata l’unificazione progressivadell’Europa “, di cui è simbolo l’adozione della moneta unica. “Ed è altresì importante che l’allargamento dell’Unione europea continui a costituire una priorità”. Certo: l’Europa. Ci soffermiamo a riflettere. Il Vecchio continente sta forse attraversando una crisi di crescita che investe problemi ben più seri di quelli dibattuti sull’argomento in casa nostra. E proprio il papa polacco, che non ha mai cessato di sottolineare la profonda unità culturale dei popoli europei, che trae origine e linfa da radici cristiane, ce lo ricorda. Quando la spaccatura fra est e ovest sembrava dovesse durare secoli, papa Wojtyla promuoveva studi e convegni su un’Europa che già vedeva unita dall’Atlantico agli Urali e che poneva sotto la protezione dei santi Cirillo e Metodio, gli evangelizzatori degli slavi, insieme a Benedetto. Oggi il papa lamenta, non senza una certa tristezza, la totale assenza di ogni riferimento alle comunità dei credenti da parte di chi dovrà contribuire alla riflessione sulla “convenzione” istituita nel summit di Laeken. “La marginalizzazione delle religioni che hanno contribuito e ancora contribuiscono alla cultura e all’umanesimo dei quali l’Europa è legittimamente fiera, sembra essere un’ingiustizia e un errore di prospettiva. Riconoscere un fatto storico innegabile non significa affatto disconoscere l’esigenza moderna di una giusta laicità degli stati, e dunque dell’Europa!”. Si potrà discutere, e già si è acceso il dibattito, su come fare riferimento nella nuova Carta costituzionale a questa ben legittima esigenza che riflette un’indiscussa verità storica: l’unità spirituale dell’Europa, da cui è nata la sua cultura sostanzialmente unitaria e da cui muove la spinta a raggiungere l’unità politica e quella economica. In realtà il cammino percorso è stato inverso, e forse proprio per questo così lungo e travagliato. Già il primo ideatore della Comunità europea, Jean Monet, ebbe a rammaricarsi di questa anomalia: “se oggi dovessi ricominciare, non lo farei partendo da un mercato comune: partirei dalla cultura”. Sul punto di portare a compimento questo percorso, sarebbe assai grave oggi non suggellarlo escludendo dal corpo dell’Europa unita la sua anima. Il papa si è sempre battuto in difesa dei diritti umani, considerando la libertà religiosa come la prima e fondamentale libertà. Lo ha fatto con coraggio davanti al comunismo. Lo fa oggi davanti al pericolo che la nuova Carta dell’Europa non tenga adeguato conto di questo diritto. E si deve riconoscere che Giovanni Paolo II ha tutte le carte in regola per alzare la voce contro questa “ingiustizia”. Ma c’è modo per rimediare, anche se il tempo incalza.