Parole riempite di un’anima
Per il giornalista le parole sono quel che per un idraulico sono il giravite e la chiave inglese. Strumenti di lavoro. Ma mentre gli attrezzi per sturare un lavandino sono scolpiti nell’acciaio, fatti per durare a lungo (se non per sempre), le parole che finiscono nella cassetta degli attrezzi del cronista sono deperibili, in scadenza come lo yogurt fresco in frigo, da consumare in fretta. Quelle che finiscono stampate su un quotidiano, se va bene, durano un giorno solo e a sera sono già da buttare via, buone forse per incartare il pesce, il mattino dopo al mercato. Quelle invece declamate con autorevolezza e ritmo in un notiziario televisivo sembrano morire già un attimo dopo essere state pronunciate, dalla vita breve, come una fragile farfalla. Tutto sono fuorché parole di vita eterna, destinate come sono a prosciugarsi in un attimo, evaporate come una pozzanghera dopo un improvviso acquazzone estivo. Qualche volta però anche le parole di un giornalista, se riempite di un’anima, possono ambire a vivere più di una notte. In occasione dell’ultima festa della Repubblica decisi ad esempio di raccontare la parata ai Fori imperiali, affidandomi alle parole di un’italiana di seconda generazione, una brillante ricercatrice di origini somale che scovai in un angolo di piazza Venezia. Con orgoglio, senza ostentazione, lontano dalle telecamere, sventolava una piccola bandiera tricolore e intanto cantava l’inno di Mameli (di cui conosceva pure le strofe, altro che i calciatori della Nazionale!), fianco a fianco a una famiglia romana. Insieme sembravano dire qualcosa di più grande e di più alto di una rituale ricorrenza civile, segnata in rosso sul calendario. Insieme (la donna di colore e i cittadini della capitale) prospettavano un mondo un po’ migliore, davano un briciolo di speranza a chi l’aveva persa, invogliavano a impegnarsi per un futuro meno cupo. Parole e immagini che per una volta parlavano il linguaggio della pace, della solidarietà, abbozzavano un’unità realizzata nei fatti, il destino comune di uomini e donne nati in due pezzi diversi di mondo, ma capaci anche solo per un attimo di riconoscersi fratelli. Non erano parole che ambivano all’eternità, ma mi piace pensare che se qualcuno lì in alto fosse stato in quel momento davanti alla tivù, possa aver apprezzato. E mi torna in mente quanto già diceva Michele Campione, un giornalista scomparso di recente, che ha fatto la storia della Rai in Puglia. «Amale le parole – ricordava –, siano le testimoni agili dei tuoi pensieri, messaggere arcane del cuore».