Parlamenti contro

Due giornate intense, dal punto di vista informativo, e tese, in ambito politico, sono state quelle di giovedì 26 e venerdì 27 ottobre, a Madrid e a Barcellona.

Il ritmo incalzante dell’informazione sulle reti sociali è sembrato sembra tenere in mano le redini dei dibattiti svoltisi quasi in contemporanea al Senato spagnolo e nel Parlament catalano. In parallelo, mentre nell’ufficio del Procuratore generale dello Stato si preparavano i documenti in cui veniva certificata, nero su bianco per la Storia, l’accusa di ribellione del presidente catalano, Carles Puigdemont, e dei componenti del suo governo. Ripercorriamo la cronaca incalzante di questi due giorni per capirne il senso.

26 ottobre. «Alle cinque del pomeriggio», ora così definita da Federico García Lorca con connotazioni taurine, Puigdemont compare davanti alle telecamere per disdire, o meglio chiarire, che, anche se effettivamente ha considerato la possibilità di convocare nuove elezioni autonome, il che avrebbe potuto fermare la volontà repressiva del governo centrale, decide alla fine di non farlo perché i suoi tentativi di assicurarsi certe garanzie elettorali sono falliti, e dunque «ora compete al parlamento» (quello catalano) decidere. Nel frattempo, tra i rumori mediatici del mattino e la dichiarazione del pomeriggio, due membri del suo partito si dimettono, qualche altro ci pensa ancora, mentre tanti indipendentisti l’accusano di tradimento. Nel pomeriggio, mentre al Senato a Madrid si discute sulla portata delle misure con cui si attuerà quell’oggetto sconosciuto che è l’articolo 155 della Costituzione, approvando due emendamenti dei socialisti, nel Parlament catalano i partiti dell’opposizione sgranano senza successo argomenti dissuasivi davanti al blocco indipendentista. Ormai la decisione è presa. Secondo gli analisti, il cambio d’atteggiamento in Puigdemont, oltre che dalla prospettiva elettorale (il suo partito di destra nazionalista governa sotto una forte pressione della sinistra indipendentista), sembra che sia reso più prudente dalle «mancate garanzie», che forse riguardano le conseguenze penali delle vicende degli ultimi mesi, cioè di fatti dichiarati illegali dal Tribunale costituzionale, che comportano pene per trenta anni in prigione per l’accusa di ribellione.

27 ottobre. Nei libri di storia resterà come il giorno in cui, alle 15.27, nel parlamento catalano si è udita la frase fatidica: «Costituiamo la Repubblica di Catalogna», cioè un’espressione che esplicita l’intenzione di aprire un processo costituente per un nuovo Stato indipendente da Madrid. Così la responsabilità della decisione non ricade solo sulle spalle del presidente Puigdemont, ma dell’intero Parlamento. Appunto per questo, i 52 deputati dei tre partiti detti “costituzionalisti”, o piuttosto “unionisti” (popolari, socialisti e ciudadanos), abbandonano i loro seggi per non rendersi complici di un atto che gli stessi consiglieri legali del Parlament hanno sconsigliato perché illegale. Così, in una votazione segreta (contestata dall’opposizione per alterazioni al regolamento interno), con 70 deputati a favore, 10 contro e 2 astenuti (del blocco indipendentista che votano in bianco), viene approvata la dichiarazione d’indipendenza. Il testo è da analizzare con la lente d’ingrandimento, perché in realtà la votazione riguarda solo le misure da adottare per attuare quel che è detto nel preambolo, in cui figura effettivamente la formula indipendentista. I giudici dovranno pronunciarsi anche su tale questione procedurale. Intanto, al Senato proseguono le riunioni tra popolari e socialisti per mettere a punto il testo dell’applicazione dell’articolo 155 che il Consiglio dei ministri dovrà attivare immediatamente. Così il presidente catalano e il suo governo vengono dichiarati decaduti, il Parlamento catalano vede diminuite le sue funzioni e si apre un periodo, probabilmente non breve, per «ristabilire la normalità democratica» in Catalogna.

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