Paraguay: una condanna per non dimenticare
Sono passati 47 anni dai fatti e 35 dalla caduta della dittatura (1989), e la maggior parte dei torturatori del regime stronista di Alfredo Stroessner sono morti. Ma almeno per Luis e Carlos Casco, e per María Teresa Aguilera (moglie di Carlos, incinta all’epoca dei fatti), la giustizia sembra finalmente arrivata.
Il 20 febbraio 2024, un tribunale della capitale paraguaiana ha condannato a 30 anni di reclusione Eusebio Torres Romero per le torture inflitte ai tre nel 1976. I giudici hanno applicato la pena massima prevista, commutata in carcere domiciliare per l’avanzata età dell’imputato, negando la prescrizione del delitto, trattandosi di un crimine di lesa umanità e con l’espressa intenzione di stabilire un precedente.
La sentenza è storica perché è la prima «Condanna a un rappresentante di alto rango della dittatura in un processo orale e pubblico», ha ricordato a Bbc-Mundo, Dante Leguizamón, segretario di Codehupy, Coordinamento per i Diritti Umani del Paraguay. Torres è solo il nono torturatore del regime di Stroessner a ricevere una condanna dopo i sette poliziotti e il militare processati negli anni 90. Ma nel suo caso la condanna è più che simbolica, e l’impatto della lettura pubblica della sentenza è ben diverso dai poco conosciuti atti d’ufficio relativi ai casi precedenti.
Il 3 aprile 1976, Carlos Casco fa ritorno in Paraguay, insieme a un amico, dopo aver conseguito in Argentina la laurea in medicina. La polizia lo arresta nel porto di Asunción e lo conduce alla sede del Dipartimento Investigazioni, in pieno centro. «Ci ricevettero a colpi di sciabola», racconta Casco. Il commissario Eusebio Torres conduceva gli interrogatori. Il procedimento era quello “standard”: minacce, pugni, bastonate e varie forme di tortura per indurre l’accusato ad autoincolparsi di partecipazione ad attività sovversive. Casco faceva parte della Agrupación Cultural Guaraní, gruppo studentesco che il regime riteneva collegato al movimento giovanile clandestino: Organización Político Militar del Paraguay.
Il fratello e la moglie di Carlos furono arrestati semplicemente perché parenti stretti e quindi probabili testimoni delle sue supposte malefatte. María Teresa partorì in un ospedale militare e fu sottoposta a torture psicologiche tra cui minacce di assassinare il marito che, nel frattempo, era rinchiuso nel penitenziario di Emboscada (quello che i reclusi chiamavano “il campo di concentramento”). «Mi dissero che ero un comunista», ricorda Carlos. «Chiunque si opponeva al regime era considerato comunista. E questo bastava».
Da parte sua, il commissario Torres si è difeso così: «Queste persone mi accusano dopo 35 anni –il processo è iniziato nel 2010– ma da allora siamo cambiati molto. Mi hanno confuso con un’altra persona». Salvo poi aggiungere che «Il PM ha l’opportunità di educare questi contadini che non sanno nulla di legge, spiegando che è passato il termine per presentare la denuncia». Durante la dittatura gli arresti illegali e arbitrari erano all’ordine del giorno. Era irregolare il 91% degli arresti di quegli anni: è quanto emerge dal verbale della Commissione Verità e Giustizia, che parla di 18.772 persone torturate.
Nel corso del tempo, oltre ad instaurare un ferreo stato di polizia sostenuto all’estero da politici amici, come la giunta miliare brasiliana o funzionari maccartisti statunitensi, il dittatore, utilizzando la struttura del Partito Colorado come se fosse un’organizzazione statale di sua proprietà, si era assicurato un blocco di fedelissimi attraverso un sistema di assegnazione di terre, beni immobili e privilegi, che produssero una sorta di casta intoccabile ed ereditaria. Lo testimoniano i cognomi di un gran numero di parlamentari e politici di quegli anni. Alfredo Stroessner morirà in esilio, in Brasile, nel 2006, senza essere mai comparso davanti a un giudice.
La sentenza di condanna di Eusebio Torres emessa dai giudici Juan Ortiz, Rossana Maldonado e Manuel Aguirre nei giorni scorsi, mette nero su bianco una serie di evidenze: che Torres torturava per ordine diretto del Ministero degli Interni e del presidente de facto, il cui governo, sostenuto dal Partito Colorado, non era semplicemente “autoritario” bensì “un regime dittatoriale” che limitava fortemente la libertà e i diritti civili della popolazione, vittima di una repressione programmata ed organizzata. Il tribunale conferma che la tortura era esercitata “in modo sistematico” e “in tutto il Paese”.
La società civile ha celebrato la condanna del 20 febbraio scorso, nonostante il notevole ritardo. «Apre alla speranza per i più di 40 casi di torture durante la dittatura che sono archiviati nelle Procure», ha affermato Antonio Pecci, giornalista, anche lui vittima del commissario Torres. Aggiungendo che la sentenza «dimostra che può esserci giustizia in Paraguay, fa sperare in un futuro promettente per casi analoghi».
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