Paraguay fra impotenza e ricerca di giustizia

Il caso nazionale della sentenza di condanna di 11 contadini per l’eccidio di Curuguaty che, nel 2012, ha provocato la dubbia destituzione del presidente Lugo. Il peso preponderante dei grandi proprietari terrieri sull’operato dei giudici. Proteste delle organizzazioni per i diritti umani. Manifestazioni nel Paese
Paraguay fra impotenza e rabbia

Il 15 giugno 2012 un’operazione di routine si trasforma in una tragedia. L’intervento della polizia per lo sgombero del campo di Marina Cue, a Curuguaty (nord del Paraguay) finisce con 20 morti, 9 poliziotti e 11 contadini senza terra.

L’episodio sarà all’origine, pochi giorni dopo, del giudizio politico che porterà alla destituzione lampo del presidente della repubblica Fernando Lugo. Ma cosa è sucesso davvero, quella mattina, a Curuguaty?

 

Comprendere quel fatto è necessario non solo per la giustizia del caso concreto, ma almeno per altri tre motivi: la credibilità della giustizia paraguayana (considerata tra le peggiori al mondo, per l’altissima corruzione), la storia della lotta per la terra nel Paese campione mondiale della concentrazione delle risorse nelle mani di pochissimi possidenti e la legittimazione della destituzione di Lugo, che si rivelerebbe non giustificata in caso di prove costruite a tavolino.

 

Lunedí 10 luglio 2016 il tribunale di prima istanza ha condannato a pene esemplari (da 35 a 8 anni di reclusione) 11 contadini del posto. Tutto chiaro allora? Assolutamente no. L’intero procedimento giudiziario, infatti, è viziato da evidenti errori secondo la prestigiosa Commissione interamericana dei diritti umani, Amnesty international e altri organismi internazionali e nazionali. Anzitutto, il processo in questione ha investigato solo le 9 morti dei poliziotti. E gli 11 campesinos?

 

Ogni fase del processo appare quanto meno strana, a partire dall’esecuzione, da parte della polizia, di un’azione (lo sgombero) che non corrisponde a quanto intimato dai giudici (un semplice riconoscimento del luogo). Le prime conclusioni delle indagini parlavano di imboscata, favorita dal fattore sopresa, da parte di circa 60 contadini, compresi donne e bambini (18 dei quali armati con fucili da caccia ad aria compressa e accette) contro oltre 300 poliziotti in tenuta d’assalto, anche a cavallo, armati con fucili automatici, granate e lacrimogeni.

 

Nella fase processuale sono stati presentati come materiale probatorio alcuni fucili non funzionanti (tra l’altro non utilizzati quel giorno), una fionda, una confezione di analgesici e il chip di un telefono cellulare. Nessuna traccia, invece, delle armi a ripetizione che, secondo testimoni oculari, video e fotografie, sarebbero state gli strumenti del delitto. Dopo l’ispezione dei giudici, inoltre, alcuni vicini, un consigliere comunale e alcuni poliziotti hanno trovato sul posto bussolotti, cadaveri e altri elementi, che non sono stati accettati come prove. Circa un mese dopo, è stato invece incorporato al corpus probatorio un fucile rubato oltre una settimana dopo la tragedia.

 

Dal rapporto della polizia e dalle immagini ampiamente diffuse nei notiziari, si sa che un elicottero delle forze dell’ordine, attrezzato con due telecamere, sorvolava l’area interessata al momento dei fatti. Ma i filmati non sono mai stati richiesti dal pubblico ministero mentre il pilota è deceduto ufficialmente in un incidente di servizio poco prima di comparire davanti al giudice come teste convocato dalla difesa.

 

Il luogo dell’eccidio risulterebbe, secondo lo stesso interessato, di proprietà di un noto personaggio politico ma l’unico documento catastale esistente riporta i dati della donazione di una ditta alla Marina militare paraguaiana. L’indeterminatezza sulla proprietà del terreno renderebbe non fondato legittimamente l’ordine di sgombero in mancanza di un reato di invasione che è stato invece contestato in capo ai contadini.

 

Il pubblico ministero del caso, Jalil Rachid, è, secondo la sua propria ammissione, figlio di un amico del politico che rivenfica la proprietà del terreno, oltre che convivente con la nipote dello stesso noto esponente pubblico.  

Gli 11 contadini condannati sono stati incriminati per i reati di associazione a delinquere e tentato omicidio, anziché di omicidio premeditato, come farebbe supporre il testo dell’accusa, perché, secondo la testuale espressione del pm Rachid «è impossibile determinare chi ha ucciso chi». Una definizione che, tuttavia, presa alla lettera, dovrebbe rendere impossibile qualsiasi condanna.

 

Una giornata nerissima, quindi, quella del lunedì 11 luglio per tutto il Paraguay. Dopo la lettura della sentenza, i parenti degli accusati, gli attivisti per i diritti umani, assieme agli avvocati difensori, hanno occupato la sala delle udienze del tribunale. È partita così una forte mobilitatzione con cortei nella città di Asunción e Encarnación per chiedere la nullità della sentenza, mentre la difesa sta studiando l’alternativa tra presentare l’istanza di nullità per vizi di forma o procedere direttamente al giudizio di appello. Dolore, pianto, impotenza e rabbia sono ancora forti nella cittadinanza attiva, quella che non si rassegna a vivere in un Paese dove regna l’impunità dei più forti. La speranza in una giustizia possibile non muore.

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