Il paradosso della gratuità
Il nostro rapporto con la gratuità presenta un elemento paradossale. Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio. Ma in un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani
non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi più di ieri, molto di più, perché diversamente dal capitalismo del Novecento, che ancora presentava tratti dell’etica cristiana e biblica del lavoro e dell’impresa, il capitalismo finanziario e
consumista del nostro tempo ha cancellato oltre due millenni di cultura per tornare
ai riti e ai culti pagani e idolatrici dei popoli del Medio Oriente o del bacino del
Mediterraneo. Lo vediamo nei nuovi templi del dio-consumo, lo vediamo nel culto meritocratico delle imprese, che non è altro che una riedizione degli antichi sacrifici pagani.
La trasformazione del capitalismo in idolatria è stata possibile perché una dimensione economico-mercantile è presente nel cuore dell’esperienza
religiosa. Questa tendenza commerciale e sacrificale della religione è stata duramente combattuta dal profetismo biblico, da Giobbe, da alcuni Vangeli, da Paolo, da Lutero, ma nel nostro tempo sta di nuovo vivendo una fase di grande successo, senza incontrare resistenze robuste.
Il sacrificio è stato il primo linguaggio religioso dell’uomo. Forse anche prima di imparare a parlare, gli uomini sapevano vedere in una nuvola, su un monte alto, in un albero spezzato da un fulmine, in un vulcano, una presenza misteriosa e diversa dalla loro. E nasceva il senso del sacro. Sapevano di essere radicalmente e
infinitamente vulnerabili, di non controllare il mondo che li circondava. Sentivano che la terra e il cielo erano abitati da altri esseri invisibili: li intravedevano ovunque, e soprattutto li temevano. L’uomo antico era un grande incantato e un grande pauroso, abitante di un mondo ostile e popolato di dèi. Da questa fragilità e precarietà nacquero il senso religioso e i sacrifici.
Di fronte all’incertezza, al mistero e alla paura del vivere, gli uomini hanno cercato (e cercano) con il sacrificio di accumulare crediti nei confronti della divinità, offrendole i beni più preziosi (animali, bambini, vergini), e così cercare di trasformare Dio in un “debitore.” E quando la dimensione sacrificale e quindi commerciale prende il sopravvento, la fede diventa idolatria, anche quando continua a chiamare i suoi idoli con i nomi di YHWH, Gesù, Allah.
Le fedi, ma anche il grande umanesimo laico, sono stati soprattutto una liberazione dagli idoli. Hanno svuotato i tempi e non li hanno riempiti. Se fossimo entrati in una antica città mediorientale, ma anche greca o romana, la prima cosa che ci avrebbe impressionato sarebbe stata il paesaggio popolato di segni sacri, di altari, e soprattutto di totem e infinite divinità. Forte fu la sorpresa di Gneo Pompeo quando, entrando nel tempio di Gerusalemme, lo trovò vuoto. Le fedi vere hanno svuotato lo spazio sacro, per crearci le precondizioni di libertà per vedere soprattutto gli altri, noi stessi, e magari, sulla linea dell’orizzonte dell’anima, anche Dio.
Il paradosso del nostro tempo sta soprattutto in questo: ci siamo voluti liberare di un Dio liberatore per imprigionarci in un culto idolatrico di massa delle merci feticcio.
Gli idoli del capitalismo continuano ogni giorno indefessi il loro lavoro di fidelizzazioni dei consumatori e dei lavoratori; ma, diversamente dai tempi dei profeti biblici, oggi mancano le voci diverse che combattono gli idoli, e quelle poche che ci sono non sono ascoltate, o perché parlano in luoghi non adatti e vuoti (i templi, ad es.), o perché usano linguaggi religiosi diventati ormai incomprensibili alla donna e all’uomo di oggi. Ci sono parole molto preziose che non raggiungono i destinatari solo perché pronunciate in lingue morte.