Paradossi biblici dell’interiorità
“Colui che ha creato l’esterno non ha forse fatto l’interno?” (Lc 11, 40).
Intesa nel senso dell’intima percezione di se stessi nel nucleo più profondo della persona, l’interiorità spirituale si dispiega nella presenza divina, classicamente sperimentabile in un dentro umano. Ciò richiede una specie di incanalamento dei sensi verso una profondità abissale del “cuore” (leb, kardia), sede nascosta e invisibile, anche se incarnata, dell’essere.
Tale dentro viene descritto come un qualcosa di opposto ad un fuori, per suggerire l’impalpabilità delle cose, sì, sperimentabili, ma avvolte dal mistero stesso dell’esistenza, mai pienamente “scoperto”, cioè non esposto né soggiogato al potere rivelatorio e controllante della conoscenza (riflessione) e del linguaggio (concetti).
Polarizzazioni paradossali
L’interiorità umana, immaginata così, si presenta come un insieme paradossale: può articolarsi come un punto infinitamente piccolo e irriducibile, come anche in una forma diametralmente opposta, quella di un universo macroscopico, capace di trascendersi ulteriormente.
In questo senso, l’interiorità si estende fra varie polarità, spesso contrastanti, senza esaurirsi in uno dei poli, magari quello più corrispondente alla sua connaturalità con il mistero. Lo dimostrano espressioni prese dalla cultura semitica che cercano di dire l’unica realtà ma racchiusa in un binomio globalizzante (in greco biblico si tratta di “en-dia-di”: una sola cosa, ma detta con l’ausilio di due termini). La celebre affermazione del Salmo 121, 8: “Il Signore veglierà sul tuo uscire e tornare”, ricorre a due azioni-cardine che insieme compongono tutto l’estendersi della vita. Esempi come questo suggeriscono: l’interiorità non è una realtà che potrà comprendersi ed essere sperimentata come sganciata o sciolta dalle sue controparti polarizzanti. È un insieme più complesso, dove ciò che conta non sono solo i “cardini” in sé, ma il rapporto che intercorre fra di essi, dando vita alla vasta fenomenologia delle dinamiche esistenziali.
L’esperienza interiore non può perciò essere circoscritta ad una sola dimensione, anche la più indovinata. Se l’interiorità abita l’uomo, è anche vero che l’uomo deve cercarla fuori di sé per “interiorizzarsi” al suo inglobante insieme superiore. La stabilità dell’amore di Dio viene espressa, per esempio, dal motivo del roveto ardente che non si muove (cf. Es 3, 1-15). Il roveto di Dio è “piantato” nella terra sacra e non intende spostarsi. È Mosè che deve fare il movimento “verso” la fiamma che brucia senza consumare, per scoprire il nome di Colui che lo chiama.
La massima interiorità, Colui-Che-Esiste, si rivela come Pro-Esistenza salvifica, ma lo dice in pieno giorno, contrariamente alla sua natura impenetrabile (quindi in un certo senso oscura). Altre volte, per rivelazioni simili, ci vuole invece qualcosa di più movimentato (lo zeffiro di Elia, 1 Re 19, 11-13), oppure più avvolto dalla nube (il simbolo della presenza nascosta della gloria divina, shekinah, che si comunica, cf. Mc 9, 7; Lc 9, 35; Mt 17, 5).
Nella rivelazione del Nome Indicibile al monte Horeb incontriamo un’altra polarizzazione: sacro e profano. Sacra è la terra di quel luogo: essa porta la Presenza! Mosè deve liberarsi da ogni protezione davanti ad essa togliendosi le scarpe, simbolo della techne (cultura) umana, quindi del profano, in quanto secondario rispetto alla prima creazione, tutta permeata dal tocco plasmante dello Spirito di Dio Creatore. I piedi scoperti dell’uomo, al contatto con la terra santificata dalla presenza del sacro, fanno partire il dialogo che interrompe i 400 anni del pesante silenzio divino. Istintivamente, si sarebbe tentati di identificare l’essenza dell’interiorità con il solo sacrum, mentre essa si situa nel contatto con la controparte, il profanum!
Interiorità “trinitaria”
Normalmente, però, la spontaneità semantica tende ad assimilare l’interiorità con qualcosa di protetto, perciò non facilmente accessibile, addirittura segreto. Le formule linguistiche più frequenti alludono ad uno spazio posizionato all’interno, piuttosto coperto, di una realtà. Per amplificare simili nozioni, si usano nella Bibbia strumenti di significato che insinuano l’idea di profondità o di altezza, potenzialmente aperte all’infinito. A questo proposito torna in mente uno dei più grandiosi testi della tradizione paolina, in cui egli augura ai cristiani e chiede per loro la grazia di venire “grandemente irrobustiti nell’uomo interiore”, grazie allo Spirito del Padre, ospitando Cristo nei loro cuori per mezzo della fede. Tale inabitazione, una volta “radicati e fondati nell’amore” li porterà ad “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza”. L’effetto è stupefacente: saranno riempiti della “totale pienezza di Dio” (cf. Ef 3, 14-20).
Non desta meraviglia che Paolo, “vedendo” tali cose, pieghi le ginocchia davanti al Padre, dal quale tutto questo proviene nella forma dell’irradiazione della sua paternità, fonte di ogni relazionalità familiare. Per una totale “trinitizzazione” di questa visione manca soltanto la dimensione pneumatologica, ma qui siamo nuovamente molto fortunati, grazie alle altre testimonianze dell’Apostolo. Normalmente, nei testi paolini, si dice spesso che tutto dipende dallo Spirito che è nell’uomo, identificando proprio nello Spirito la interiorità umana redenta. In un senso allargato, si può parlare persino di una interiorità ecclesiale, immaginando la comunità cristiana come un edificio abitato da Dio (“dimora di Dio nello Spirito”, Ef 2, 22).
L’interiorità, come ce la descrive un testimone affidabile dalla statura di san Paolo apostolo, investe dunque un “io” personale, sia umano che divino, disteso sulle sue profondità indefinibili, penetrati soltanto da uno pneuma, spirito non particolarmente disponibile ad un controllo razionale, che le riempie, vitalizza, plasma, conosce, informa e mette in comunicazione con l’alterità dialogante. Ai Corinti, infatti, Paolo pone una domanda significativa: “Chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così pure i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio” (1 Cor 2, 11).
Interiorizzazioni reciproche e aperte al tertium
Mentre lo Spirito abita le profondità dell’essere umano, è altrettanto vero affermare che tutta la vita umana si svolga “nello Spirito”, nel quale l’uomo deve vivere e camminare (cf. Gal 5, 16). In questo tipo d’immaginazione, l’uomo e il suo mondo diventano in un certo senso interiori rispetto allo Spirito di Dio in cui tutto esiste. In questa direzione si muove la testimonianza lucana del discorso di Paolo ai Greci ad Atene. Parlando all’Areopago, egli afferma: “In lui [Dio] infatti viviamo, ci muoviamo e siamo” (Atti 17, 28). Questa articolazione non è un semplice trucco retorico, per captare la benevolenza dell’audience greca, ma trova conferme nel modo di pensare dell’Apostolo in tutto il suo epistolario.
È commovente, per esempio, la confessione che egli fa ai Filippesi, riguardo a tutta la ricchezza del suo passato, ormai giudicato come perdita “a paragone della sublime conoscenza di Cristo” e valutato come rifiuto al fine di guadagnare Cristo e “ritrovarsi / essere in lui”, per poi “conoscere lui con la potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze” (cf. Fil 3, 7-10).
Abbiamo qui una reciprocità delle interiorità che si conquistano a vicenda. Nel contesto delle sue pregnanti affermazioni, Paolo descrive il suo “guadagnare Cristo” come un movimento molto dinamico: si dice di correre verso tale meta nel tentativo di afferrarla (cioè di trovarsi nell’intima interiorità personale di Cristo), perché egli stesso si sente già “afferrato da Cristo Gesù”, cioè abitato da Lui (cf. Fil 3,c12). Tale, infatti, era stato il progetto originale di Dio: al Padre era piaciuto scegliere Saulo per donare Cristo alle moltitudini pagane, ma con una modalità del tutto sorprendente, espressa nella corrispondenza con i Galati. A Dio era piaciuto – dice Paolo – rivelare il suo Figlio “in me” (Gal 1, 16).
Il linguaggio giovanneo conosce simili inabitazioni reciproche delle interiorità. La preghiera del testamento di Gesù (Gv 17) è piena di simili movimenti. Da una parte, Gesù sa di essere il Figlio in tutto dipendente dal Padre che lo genera: “tutto quanto mi hai dato viene da te” (v. 7). Ma il Figlio è altrettanto certo del flusso di reciprocità fra di loro: “Tutto ciò che è mio è tuo e quello che è tuo è mio” (v. 10). La preghiera per l’unità dei discepoli si fonda proprio sulla reciprocità delle interiorità fra le divine Persone: “che tutti siano uno come tu, Padre, in me ed io in te” (v. 21a).
La particolarità della visione giovannea sta nel fatto che i discepoli sono indirizzati verso questa interiorità divina, tanto unica e inaccessibile, ma offerta loro in dono: “affinché siano anch’essi in noi, così che il mondo creda che tu mi hai mandato”. (v. 21b). L’indirizzo paolino, più personale e individuale, si apre qui verso una dimensione dilatata, più comunitaria. Ma anche Giovanni deve completare i movimenti come l’aveva fatto Paolo. Se è ovvio che l’umanità redenta trovi il suo habitat nell’interiorità comunionale di Dio uno e trino, è necessario avvertire anche il movimento inverso: l’indicibile unità delle divine Persone, tramite Gesù, deve arrivare a “confinarsi” nei discepoli. Gesù, infatti, prega il Padre “perché siano uno come noi siamo uno” specificando “io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (vv. 22-23). Il Padre “si interiorizza” nella comunità credente: dapprima si consuma nell’unità con il Figlio in lui e il Figlio lo fa in loro.
Il Regno di Gesù come interiorità “tra voi”
Lo sviluppo ulteriore è invece quello che pone tale intima interiorità divina “in mezzo” ai discepoli. Siamo giunti all’interiorità relazionale che poggia sulle esteriorità umane (esse definiscono le persone nelle loro irriducibilità spazio-temporali) capaci però di comunione che tutto abbraccia. In questa visione convergono tutti i dati neotestamentari. Il Regno di Dio, infatti, si estende “tra voi”, dichiarerà Gesù nel Vangelo di Luca, per situarlo come realtà già presente e operante, ma misteriosamente fondata sulle relazioni tra i discepoli, e non identificabile con le ubicazioni geografiche o simili: “Nessuno potrà dire: eccolo qui o eccolo là” (Lc 17, 21).
Questo è ormai dato di fatto che segna profondamente e per sempre il cammino dei cristiani: dopo la risurrezione di Gesù e dopo l’effusione del suo Spirito, il mondo creato si trova ormai “all’interno” di Lui. Gesù non è più contenuto dalla nostra natura, ma piuttosto essa si ritrova in Lui come creazione nuova. Introiezioni della risurrezione e del futuro escatologico di Dio–con–loro (Ap 21, 3) nella storia umana costituiscono, sì, l’interiorità salvifica del Kyrios presente dentro lo svolgimento dei tempi, ma tutto è misteriosamente racchiuso in Lui, e Lui è nel Padre.
Nessuno può dunque tentare di dirsi fuori, se sta nell’agape di Gesù, vissuta con Lui in mezzo agli altri discepoli. Dio, infatti, è amore “e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Gv 4, 16). In questa visione, l’amore dà la stessa dignità e valenza a ciò che è fuori e ciò che è dentro. Dio, infatti, ha creato entrambi per dirsi Amore.