Paradiso terrestre e inferno terrestre

Parco nazionale di Nairobi

Mi capita di visitare nello spazio di poche ore, qui a Nairobi, capitale del Kenya, due contesti urbani assolutamente contrastanti: il Parco nazionale di Nairobi, che separa l'abitato dall'aeroporto internazionale coi suoi 117 chilometri quadrati, e la baraccopoli di Kibera, che separa il parco dal centro commerciale, concentrato in una dozzina di chilometri quadrati del peggio che una città possa produrre dalle sue tensioni politiche, economiche e sociali. Com'è possibile che a distanza di pochi chilometri una stessa città dia vita a situazioni così diverse? Da una parte un paesaggio di straordinariabellezza, popolato dalla selvaggia natura di queste terre con leoni, giraffe, gazzelle, zebre, rinoceronti bianchi e neri, ippopotami, in un contesto che invita a lodare l'integrità della natura, a ricordare in qualche modo il paradiso terrestre, anche se i grandi uccelli meccanici sorvolano la zona… Dall'altra, lo scrivevo un paio di giorni fa, centinaia di migliaia di persone vivono negli slum di Nairobi una vita che per certi versi è subumana, in catapecchie di latta senza elettricità, con le fogne a cielo aperto in uan costante insicurezza. Sembrerebbe l'inferno terrestre, e lo è.

 Ne parlo con alcuni partecipanti al congresso internazionale di Economia di Comunione. Non c'è da stupirsi, in fondo, di tali contrasti, frutto di secoli di colonizzazione e di smantellamento delle strutture sociali tradizionali. L'Africa è probabilmente il continente più ricco al mondo, basti pensare alla sua natura, appunto, ma anche a quello che sta sotto la superficie, le materie prime, il petrolio, il gas; eppure è un continente impoverito da uno sfruttamento ormai plurisecolare dal quale bisogna imperativamente liberarsi attuando delle politiche di giustizia e di fraternità che sconfiggano la gravissima corruzione che imperversa un po' ovunque.

 E tuttavia ciò non basterà, se non si faranno emergere le qualità dell'essere e del vivere africano, la saggezza profonda dei popoli che parla di condivisione (celebre il principio dell'ubuntu, cioè le cose si fanno meglio quando si fanno assieme), di accoglienza (tradizione ripetuta quasi uguale da un nigeriano, da un camerunense e da una tanzaniana: la tavola preparata per mangiare davanti a casa ha sempre un posto libero per l'ospite), di  rapporto vitale con la Natura, il luogo dove vivono gli antenati, dove la "generatività" tipica di queste terre meglio si esprime (colgo tra i partecipanti espressioni quali: «Solo in Africa ancora non sfruttiamo la natura più di quel che essa possa dare»; «Senza rapporto con la natura noi africani siamo orfani di Dio»; «Benedico la terra che mi sostiene ogni mattina, e ogni mattina mi sento benedetto da essa».

 

Il professor Luca Crivelli, svizzero ticinese, enumera alcuni dei criteri che l'Economia di Comunione offre a tutti, e all'Africa in particolare, per riuscire nell'impresa di riavvicinarsi a un rapporto corretto tra persone, tra persone e cose, tra persone e natura (e tra persone e Dio): «Imparare a guardare ai fratelli e alle loro povertà; imparare a distinguere la povertà "positiva", la ricchezza insita nella povertà (non nella miseria); essere aperti al contagio dell'altrui sofferenza, alla vulnerabilità; diventare agenti di cambiamento creando e portando avanti aziende che siano fattore di cambiamento; credere che dalla povertà si esce con le proprie gambe…». L'applauso e le grida che accolgono una tale sintesi dicono che i popoli africani sono "naturalmente" portati alla comunione, anche in economia. E qui sta la speranza dell'Africa.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons