Ma in Paradiso si gioca? La Tomba del Campi Elisi a Roma
A Roma, in visita allo straordinario contenitore che è il Museo delle Terme di Diocleziano, mi aggiro nell’Aula X quasi intimidito dalle gigantesche proporzioni di quello che, un tempo tra gli ingressi monumentali al percorso termale, è oggi luogo di esposizione di alcuni eccezionali reperti funerari. Tra questi il sepolcro dei Platorini, scoperto nel 1880 sulla riva destra del Tevere e qui ricomposto insieme a due tombe a camera del II secolo d. C. – prelevate negli anni Cinquanta, con un’ardita operazione di ingegneria, dal costone tufaceo nel quale erano scavate, lungo la via Portuense: la Tomba detta degli Stucchi dalla volta decorata a raffinati medaglioni in stucco bianco e quella di cui mi accingo ora a parlare, detta dei Campi Elisi dall’insolita scena dipinta a smaglianti colori, allusiva alla sfera terrena e a quella ultraterrena.
L’attenzione di chi ne osserva l’interno attraverso il vano d’ingresso viene subito catturata dal grande pannello figurato sulla parete destra, dove sotto esili festoni sono rappresentati tre gruppi maschili e femminili intenti ad altrettanti tipi di gioco: quattro personaggi seduti in cerchio giocano ai dadi o agli astragali (ossicini con quattro facce corrispondenti ai numeri 1, 3, 4 e 6), altri quattro a nascondino e tre al ”trigon”, corrispondente alla moderna pallavolo. Sembra quasi di sentire l’allegro vocìo dei partecipanti: è il trionfo non della morte, ma della vita; una vita che di colpo sentiamo vicina alla nostra, quotidiana: basta solo sostituire ai disusati astragali le biglie! Colpisce anche il tratto sicuro e fluido con cui il pittore ha raffigurato (vorrei dire “fotografato”) queste scenette ludiche.
Ma ancor più sorprende per il rilievo che ha, un po’ discosta dai giocatori, la figura di un bambino nudo, tranne una fascia attorno alle reni, in atto di spingere un curioso arnese a tre ruote. Gli studiosi vi hanno ravvisato il carretto a tre, quattro ruote o monoruota con i quali i monelli dell’antichità classica facevano le loro scorribande, quasi un antenato del monopattino. La trazione era data dal conducente che con una gamba si teneva in equilibrio sul telaio di legno mentre con l’altra determinava la corsa del veicolo, che poteva servire anche d’appoggio all’infante per imparare a camminare, come il moderno girello.
Dopo questa grande scena, destinata evidentemente a rappresentare la vita beata post mortem che attende i giusti nei Campi Elisi (il paradiso pagano), il confronto su Internet con le immagini ravvicinate degli altri dipinti meno visibili sottolinea il messaggio consolatorio di questa tomba, dedicata da una coppia di coniugi benestanti ai due figli morti prematuramente. Sulla parete di fondo, i realistici ritratti a mezzo busto di entrambi i fratelli campeggiano sui timpani di due tabernacoli, mentre in basso si vedono effigiati – in atteggiamento mesto e silenzioso – i genitori, anch’essi sepolti qui con loro e con alcuni liberti.
Dipinte a rapidi colpi di pennello in bruno rossiccio, verde, giallo, rosa carico e azzurro sul fondo bianco, altre immagini sono tipiche del repertorio funerario: fiori, melagrane, uccelli, pavoni, geni delle quattro stagioni: altrettanti simboli di bellezza, gioia, comunione, fecondità, rinascita delle forze della natura dopo il sonno invernale. Sulla parete d’ingresso una giovane coppia adagiata su un letto tricliniare sembra attendere l’inizio dei giochi conviviali. Nel soffitto, invece, una navicella con la vela gonfiata dal vento e una figura maschile a bordo, mentre due femminili attendono a riva, fanno pensare a Ulisse che resiste al canto delle Sirene: allusione anch’essa alla vita immortale delle anime, allietata da canti ben più affascinanti.
Per approfondire il significato religioso e oltremondano dell’intera decorazione può essere utile un confronto con la rappresentazione dell’Ade sopra un’anfora apula del IV secolo a. C. proveniente da Taranto ed ora al Museo di Monaco. A sinistra dell’edicola dove siedono gli dèi dell’Oltretomba, Orfeo con la sua lira precede l’arrivo nei Campi Elisi dei membri di una famigliola, preservati dai tormenti infernali forse perché iniziati ai misteri del cantore tracio: padre, madre e un fanciullo che si trascina dietro un giocattolo a ruote simile a quello prima citato.
Ma un bambino dell’antichità pagana – ci si può chiedere – poteva accedere ai culti orfici o ad altri misteri che garantissero salvezza e beatitudine, ciò che in definitiva lo avrebbe assimilato ad un dio? La risposta è sì, assodato che in età romana l’innocenza rendeva i fanciulli degni dei doni divini. Non a caso nel celebre affresco della Villa dei Misteri a Pompei, che documenta l’iniziazione di una sposa ai misteri dionisiaci, appare un bambino nudo impegnato nella lettura del rituale. Del resto, in questa stessa Aula X la particolarissima statua equestre di un altro giovinetto che stimola col frustino un cavallo internamente cavo – probabile urna cineraria –, rappresenta il viaggio verso l’Oltretomba del piccolo cavaliere, pronto ormai ad essere onorato alla stregua di un dio.
Indizio, in questa tomba, dell’adesione dei proprietari ad un rito orgiastico e liberatorio potrebbe essere la nicchia centrale della parte di fondo, trovata priva della statuetta della divinità: forse Sabazio a giudicare dalla pigna, frutto a lui sacro, dipinta sul timpano; quel Sabazio identificato dai romani con Dioniso-Bacco, dio misterico al quale erano consacrati i caproni – e proprio due di questi animali compaiono sopra la grande scena dei giochi. Cosa concludere? Nulla sembrerebbe opporsi all’idea che i fanciulli qui ritratti e i loro genitori aderissero ad uno di quei culti misterici che nel II secolo d. C. proliferavano nel mondo romano, introdotti per lo più dai legionari delle province; culti più accattivanti della religione ufficiale di Stato, in quanto assicuravano ai loro adepti, tramite un percorso spirituale e penitenziale, le gioie dell’immortalità. Sarebbe questo, in definitiva, il messaggio di speranza che ci giunge dalla Tomba dei campi Elisi.
—