Paradisi fiscali. Le scelte da compiere per abbatterli
Nella prima parte dell’intervista con Andrea Baranes della fondazione culturale di Banca etica, ci siamo chiesti perchè tra i nomi eccellenti coinvolti nello scandalo dei paradisi fiscali non compaiano cittadini statunitensi. Secondo gli analisti economici c'è già uno stato degli Usa, il Delawere, che gode di molti privilegi fiscali per le aziende che vi risiedono, le quali talvolta utilizzano tali benefici proprio per eludere il fisco. La gestione di questi capitali con vistose zone d'ombra genera anche lotte di potere e si pensa che sia stata una di queste a rendere pubblici i nomi delle persone coinvolte a vario titolo nell'amministrazione di capitali a Panama. I commentatori più auterovoli vi intravedono la lunga mano del finanziere George Soros che intenzionato a colpire il leader russo Vladimir Putin, ha favorito la pubblicazione dei dati.
Come si possono leggere queste ricostruzioni?
«Stiamo parlando, come già detto, di un unico studio legale in uno delle decine di Paesi considerati come “paradisi fiscali”. Vista la segretezza che circonda questi Paesi e ancora di più gli studi di avvocati e consulenti, il ripetersi di scandali e fughe di notizie potrebbe fare pensare a uno scontro di interessi. Il consorzio di giornalisti investigativi che ha portato alla luce i “Panama Papers” parla di un collaboratore anonimo dello studio che avrebbe deciso di rendere pubblici i documenti per senso di giustizia».
Può essere una versione credibile?
«È chiaro che quando si parla di “terabytes” di dati e milioni di documenti è difficile pensare all’iniziativa di un singolo. Difficile anche capire se ci siano interessi geopolitici in una direzione o in un’altra. Rimane però il fatto che non sono stati smentiti i documenti, né nessuno ha messo in dubbio la vastità degli interessi che si nascondevano dietro quell’unico studio legale, e per estensione nel sistema dei paradisi fiscali».
A prescindere da tutto, cosa davvero si può fare per abbattere i paradisi fiscali?
«Diverse proposte sono note da anni. Come per altri ambiti della regolamentazione finanziaria, contrastare efficacemente i paradisi fiscali non è tanto un problema tecnico, quanto di volontà politica. Una volontà fino a oggi mancata. Una delle misure da intraprendere è l’obbligo per tutte le imprese multinazionali di pubblicazione dei bilanci suddivisi in ogni paese in cui operano. Oggi le imprese possono pubblicare dati aggregati. Se gran parte delle mie attività produttive sono in Italia, ma le mie attività finanziarie sono spostate in Lussemburgo e posso pubblicare un bilancio unico per tutta l’Europa, per le nostre autorità è molto difficile capire la situazione. I dati contabili e di bilancio suddivisi per Paese, quello che gli inglesi chiamano country by country reporting, permetterebbe un salto di qualità enorme non solo contro evasione ed elusione fiscale, ma anche contro corruzione e riciclaggio. Serve poi conoscere il reale beneficiario di ogni impresa, per contrastare le società anonime che sono sinonimo di riciclaggio e criminalità organizzata».
Quindi è solo una mancanza di volontà politica?
«Purtroppo è un dato di fatto. L’Europa sta discutendo di queste e altre proposte, così come del resto accade su scala internazionale. Se manca la volontà di introdurle, in parte questo è sicuramente dovuto ai giganteschi interessi in gioco. Basta scorrere l’elenco di politici e potenti che sta emergendo dai Panama Papers per rendersene conto. Non è solo questo, però. Il problema è anche nell’opinione pubblica»
Oltre alla volontà politica manca anche una convinzione nella società civile?
«Il pensiero diffuso troppo spesso giustifica o comunque non condanna l’utilizzo dei paradisi fiscali. Anche in questi giorni abbiamo letto diversi quotidiani sostenere che se lo Stato è inefficiente e ti tassa troppo allora chi può fa bene a spostare i propri soldi all’estero. Fin troppo facile ricordare come Berlusconi – da primo ministro – si sentisse “moralmente autorizzato a evadere”. Ma più in generale troppi nell’opinione pubblica giustificano il “povero imprenditore vessato dal fisco” che porta i suoi soldi in Svizzera. Così come tendiamo a guardare addirittura con una punta di invidia il calciatore o la rockstar con il bottino in un paradiso fiscale. Occorre capire che non c’è soluzione di continuità tra questi personaggi e i peggiori traffici delle afie internazionali. Sono gli stessi territori, le stesse operazioni, gli stessi intermediari che entrano in gioco. Fino a quando non ci sarà una completa e inequivocabile condanna morale di tali operazioni, è difficile pretendere che la classe politica si impegni per dei passi in avanti significativi. Bisogna prima di tutto non accettare il ritornello che giustifica la crisi per colpa dei buchi nelle finanze pubbliche perché “non ci sono i soldi”. I soldi ci sono, e sono pure troppi, ma sono (quasi) tutti dalla parte sbagliata».