Paradise, nuova serie su Disney+
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Il paradiso del titolo non va letto in senso letterale e non ha nulla di spirituale. Nemmeno di naturale, perché soffiandoci sopra svanisce ogni sua consistenza: accade, con grande evidenza, alla fine del primo episodio, quando il paesaggio curato e lussuoso − un reticolato elegante di case e stradine nel verde − si rivela un’enorme finzione.
Qualcosa che ricorda The Truman Show, ma con sfumature, nemmeno troppo accennate, di un futuro drammatico fino alla distopia. Un avvenire cupo in cui gli esseri umani, o quelli che sono rimasti, si sono rifugiati in una sorta di città tanto perfetta (per altro solo apparentemente) quanto innaturale. Molte cose sono fittizie anche se sembrano vere, in quello spazio superficialmente ordinato e luminoso. Le papere nei laghetti sono di plastica, i suoni tra gli alberi degli insetti sono registrati, dopo che al pianeta è accaduto qualcosa di brutto, e quelli che potevano − l’elite − si sono radunati in una specie di parco altamente tecnologico, scavato e realizzato dentro una gigantesca grotta. Tra loro, anche l’ex presidente americano, la cui uccisione impone indagini complesse per scoprire il responsabile, conducendo inevitabilmente questa fantascienza senza astronavi e asteroidi, ma con persone vestite come gli spettatori, sulle strade del thriller colorato di giallo.
Potenzialmente soggetto allo smarrimento, al dignitoso anonimato, tra gli scaffali della grande offerta televisiva, se non fosse che alla voce showrunner di questa serie disponibile su Disney+ in 8 episodi (4 già presenti in streaming e gli altri a seguire, uno a settimana) si legge Dan Fogelman. L’autore − tra altre cose notevoli − di This is us: un grande (o forse il grande) family drama a cavallo tra gli anni ’10 e i ’20. Interno di famiglia decisamente emozionante, pieno di vita e di scavo psicologico nei personaggi, nella forza dei legami familiari e umani.
Basta la prima sequenza di Paradise, inoltre, per ritrovare anche Sterling K. Brown: l’eccezionale Randall di This is us, e bastano i primi episodi a confermare, oltreché il rinnovato e raffinato lavoro di Fogelman su diversi livelli temporali (passato e presente che si palleggiano), quell’autorialità sperata tra le righe del racconto di genere.
Anche in Paradise, seppure con toni e dinamiche diverse − ci sono anche sequenze violente − affiora una densità di contenuti coinvolgente, mentre la serie, tra le indagini e l’accumulo di informazioni sui vari personaggi, entra nelle ansie del presente, nell’attualità tesa del nostro tempo. Lo fa attraverso il tema della crisi ambientale e quello della complessità socio economica della modernità. Nei concetti più atemporali di comunità e socialità umane, di città e società ideali, nel rapporto tra tecnologia e sicurezza, tra controllo e libertà.
E ancora, Paradise tocca il tema della perdita (molti hanno perso qualcuno prima di finire in quel paradiso artificiale e imperfetto) e in uno dei suoi dialoghi omaggia la poesia perduta della natura: coi suoi suoni, odori e colori. Quelli che ogni istante riempiono i nostri sensi, ma che spesso, rapiti dai nostri mille affanni, trascuriamo ed evitiamo di trasformare in emozioni.
Del resto, è con la sapiente verbalizzazione che si definiscono via via le intense psicologie dei personaggi di Paradise, tutti immersi in uno spazio visivo e in una qualità narrativa che, col suo passo da mezzofondista, consente alla tenerezza di farsi spazio tra la tensione, e nobilita il coinvolgimento emotivo, accompagnando la voglia di andare a vedere cosa accade nell’episodio successivo ben oltre il mistero da risolvere, ma per seguire l’autore nel disvelamento della sua riflessione.
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