Papa Francesco in Mongolia?
Qualche anno fa mi trovavo in Cina nella provincia Heilongjiang, all’estremo nord est del Paese. Un pomeriggio chi mi ospitava mi portò a visitare le fertili campagne circostanti la città di Qiqihar. Ad un certo punto, scendemmo dall’auto con la quale viaggiavamo e camminammo a piedi per un po’ di tempo. Mi dissero che ci trovavamo nella Mongolia interna.
Ricordo l’impressione di quei momenti. Già essere arrivati in quell’angolo di Cina non mi aveva lasciato indifferente: che diversità da Pechino, Shanghai, Canton per non parlare di Hong Kong! Per arrivarci da Shanghai, fra l’altro, avevamo volato per cinque ore. Tuttavia, la Mongolia, anche se ne avevo toccato la terra solo brevemente, mi aveva suscitato sensazioni particolari. Terra misteriosa, di steppe sconfinate, che spesso conosciamo solo da film o programmi tipo Discovery Channel, e poco popolata. Eppure un mondo affascinante. Non nascondo di aver vissuto sentimenti simili quando papa Francesco ha annunciato ufficialmente un suo prossimo viaggio nella Mongolia (quella indipendente, questa volta), stato cuscinetto fra la Russia siberiano-asiatica e la Cina. Ne aveva più volte parlato con i giornalisti durante i suoi viaggi di ritorno dal Sud Sudan, nel febbraio scorso, e dall’Ungheria. Ma soprattutto, ne aveva accennato in occasione dell’udienza del 14 aprile con i dipendenti di Ita Airways. «E poi ci sarà Marsiglia, poi la Mongolia… e tutte queste cose che sono in lista d’attesa», aveva accennato Bergoglio. La settimana scorsa, il 3 giugno, è arrivata la comunicazione ufficiale, alla quale si è aggiunto un grande punto interrogativo con il nuovo ricovero del papa e l’operazione subita negli ultimi giorni.
Comunque, l’intenzione c’è e si è fatto tutto quanto previsto dal protocollo per questo viaggio a due passi (si fa per dire) sia dalla Cina che dalla Russia, due Paesi, dove l’attuale papa sognerebbe di mettere piede e dove incontrerebbe due personaggi chiave della geopolitica mondiale attuale, diversamente controversi, ma senza i quali non si può oggi parlare di pace, di fraternità e di tutela dell’ambiente, discorsi cari al pontefice.
Il nuovo viaggio, nella speranza che l’attuale stato di salute del pontefice non rappresenti un ostacolo alla sua realizzazione, conferma la linea bergogliana che da sempre ha privilegiato le periferie e i punti dove i cristiani sono in minoranza – spesso, come in questo caso, pressoché infinitesimale – o sono vittime di discriminazioni o di sofferenze di altro tipo (ricordiamo l’Iraq, per esempio). In Mongolia i cattolici sono pari allo 0,02% della pur esigua popolazione locale (non arriva ai 3 milioni e mezzo di abitanti). Il vescovo, Giorgio Marengo, cuneese e missionario della Consolata, è da poco stato elevato cardinale (nel Concistoro dell’agosto 2022), altra conferma dell’attenzione di Bergoglio a queste Chiese che, nella sua lettura, debbono essere rappresentate nel Collegio cardinalizio quanto altre ben più numerose ed antiche.
La Mongolia è la terra di Gengis Khan, caratterizzata da steppe sconfinate e da un clima capace, fra estate e inverno, di escursioni termiche di 80° C (si passa dai 40° C estivi ai -40° C invernali). La popolazione è fondamentalmente nomade e formata da pastori, con l’eccezione della capitale Ulan Bator. All’interno di questo popolo, i cattolici sono poco più di mille e quattrocento, un vero ‘piccolo gregge’ evangelico che, spesso, il card. Marengo ha definito ‘vivace’.
La storia della Chiesa mongola è molto recente, probabilmente la più recente nella toponomastica della Chiesa cattolica. È, infatti, una comunità che può ragionevolmente fissare la sua data di nascita nel 1992, quando, dopo settant’anni di regime comunista, fu permesso a tre missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria – i padri Gilbert Sales, Robert Goessens e Wenceslao Padilla – di mettere piede sul territorio mongolo e di esercitare il ministero. Padilla, filippino, fu il responsabile della missione fin dal 1992, e poi il primo prefetto apostolico di Ulan Bator fino alla sua morte nel 2018. Intanto, nel 2003 erano arrivati anche i Missionari della Consolata, famiglia religiosa fondata dal beato Giuseppe Allamano nel 1901, che si concentrarono ad Arvaiheer, nella regione di Uvurkhangai. L’attuale cardinale è parte di questa missione della Consolata insieme ad altri 77 missionari di diversa provenienza geografica ed ecclesiale, che comprendono sacerdoti, religiosi e laici. Dunque, una Chiesa che ha appena celebrato il suo primo trentennio di vita.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che una presenza cristiana era rintracciabile già nel primo millennio del cristianesimo anche se, successivamente, è sparita e se ne sono perse le tracce. A fronte di questo sparuto gruppo di cattolici, la religione maggioritaria in Mongolia è il buddismo tibetano. Tuttavia, circa il 30% della popolazione dichiara di non avere una fede, risultato questo di decenni di ateismo comunista. Il Paese è caratterizzato da contrasti che emergono in modo evidente fra la Mongolia della capitale, Ulan Bator – tipica città dei nostri tempi con evidenti segni di evoluzione e modernità urbanistica e tecnologica confermata da costruzioni moderne –, e il “resto” del Paese. Qui dominano i grandi villaggi, con allevamenti, grandi spazi, tradizioni antiche, ma anche povertà e isolamento. Giusto, quindi, parlare di ‘due Mongolie’.
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