Papa Francesco tra gli operai dell’ILVA
L’attesa nei volti dei lavoratori in tuta e casco nel grande magazzino dei rotoli di acciaio dell’ILVA, nei giorni in cui altrove viene deciso il destino dell’azienda, era evidente: lavoratori genovesi eredi di una antica cultura del lavoro, che, unici in Italia, negli ultimi anni hanno deciso di affrontare la riduzione delle maestranze, rifiutando la ignavia obbligata della cassa integrazione e prestandosi a lavori utili alla comunità. Anche se di ridotta professionalità.
Papa Francesco non li ha delusi, anzi li ha sorpresi, con una serie di affermazioni di grande rilevanza che ha scatenato i loro applausi, tutt’altro che di convenienza e particolarmente sorprendenti per chi conosce il carattere restio e riservato dei genovesi.
Particolarmente inusuali e convinti gli applausi che hanno seguito la distinzione descritta da Francesco tra le figure dell’imprenditore e quella dello speculatore che tende a prenderne il posto, in risposta alla descrizione da parte di un imprenditore delle Riparazioni Navali delle difficoltà a mantenere nell’attuale contesto dell’economia italiana i posti di lavoro e l’equilibrio economico dell’azienda:
«Il buon imprenditore è qualcuno che parla bene della sua azienda, dei suoi lavoratori, della sua città, della sua terra. Perché l’imprenditore conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, con loro – non dimentichiamo che l’imprenditore è prima di tutto un lavoratore. Condivide le loro fatiche, e condivide le gioie del lavoro, la bellezza vera di risolvere insieme problemi, di creare qualcosa insieme. Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta tragica, e non lo farebbe, se potesse: nessun imprenditore vero ama licenziare la sua gente. Ci soffre sempre e qualche volta da questa sofferenza nascono nuove idee per evitare il licenziamento.
La malattia della nostra economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel vangelo chiama ‘mercenario’, per contrapporlo al ‘buon pastore’. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare soldi.
Licenziare, chiudere, spostare l’azienda, non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, ‘mangia’ persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto. Quando l’economia è abitata da imprenditori le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri; quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore l’economia perde volto, volti: dietro le decisioni non ci sono persone, e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concreta essa stessa diventa una economia senza volto, e quindi spietata».
A commento delle difficoltà ad operare a causa delle troppe regole burocratiche, papa Francesco sottolinea che spesso la politica approva le leggi che presuppongono la sfiducia verso chi opera in economia:
«Oggi dobbiamo temere gli speculatori, non gli imprenditori. Ma, paradossalmente, qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato, e chi lo è, riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. È ben noto che regolamenti e leggi pensate per disonesti finiscono per penalizzare gli onesti».
Qui papa Francesco mette sottolinea la “vocazione laica” dell’imprenditore che gli permette di superare comunque gli ostacoli che gli si pongono, con le parole di Luigi Einaudi, economista che nel dopoguerra è stato presidente della nostra Repubblica:
“Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi”
All’intervento di una sindacalista, preoccupata della attuale disoccupazione e delle incertezze per la rivoluzione industriale 4.0 che potrebbe ridurre ancora i posti di lavoro, papa Francesco sottolinea l’importanza per l’essere umano del lavoro, nei cui luoghi Dio si è manifestato più che in luoghi di culto, facendosi uomo come artigiano, figlio di una madre di casa, anche se Sede della Sapienza:
«La mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto, molto di più. Lavorando noi diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce. I giovani diventano adulti soltanto lavorando.
La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione, che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. Sulla terra ci sono pochissime gioie, se ce ne sono, più grandi di quelle che si sperimentano lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro: quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo, e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro, anche quando diventa un cibo velenoso.
Per questa ragione attorno il lavoro si edifica l’intero patto sociale, perché quando non si lavora, si lavora male, si lavora poco, o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi. È anche questo il senso del bellissimo Articolo 1 della Costituzione italiana: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”: se non fosse fondata sul lavoro la repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato e lo occupano privilegi, caste, rendite».
Tra gli applausi dei 1500 lavoratori che si sentono profondamente capiti, Francesco affronta per il futuro un aspetto di grande attualità:
«non bisogna rassegnarsi all’ideologia,… che immagina un mondo dove solo metà o forse 2/3 dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale.
Deve essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è ‘reddito per tutti’ ma ‘lavoro per tutti’, perché senza lavoro per tutti non ci sarà mai dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, perché quando le persone escono dal mondo del lavoro diventano degli scarti, anche quando ricevono un po’ di denaro per sopravvivere. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro. Per tutti, soprattutto per i giovani».
Ad un lavoratore che fa presente che i valori oggi in voga nel mondo del lavoro, sono a volte in contrasto con la solidarietà e l’amore reciproco del cristiano, papa Francesco risponde:
«L’accento sulla competizione all’interno dell’impresa, oltre ad essere un errore antropologico e cristiano, è anche un errore economico, perché dimentica che l’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità. Quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione tra di loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione. E così quando arriva una crisi, l’azienda si sfilaccia e implode …..».
E poi quasi a sorpresa affronta un tema davvero controcorrente, attirando tanti applausi di quanti scoprono gli effetti negativi di un aspetto che consideravano accettabile e valido:
«La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella, il merito…, ma al di là della buona fede dei tanti che la invocano…. dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come dono, ma come merito… chi rimane indietro … è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa…. Ma questa non è la logica del vangelo, non è la logica della vita … la cultura ..del nostro capitalismo usa la meritocrazia come il figlio maggiore nella parabola del figliol prodigo…. per maledire e scartare i demeritevoli e i poveri. Nessun figlio si merita le ghiande dei porci»
Alla domanda di una lavoratrice che a nome dei “molti uomini e donne sacrificati agli idoli del profitto e del consumo” chiede un conforto per il disagio che avverte nella perdita del lavoro: papa Francesco sottolinea il dolore di coloro a cui il lavoro viene a mancare:
«Chi perde il lavoro e non riesce a trovare un altro buon lavoro perde la dignità, come perde la dignità chi è costretto per necessità ad accettare lavori cattivi e sbagliati: invece di un riscatto, il lavoro diventa un ricatto; non tutti i lavori sono buoni: ci sono ancora troppi lavori cattivi e senza dignità, nel traffico di armi, nella pornografia, nell’azzardo, e in tutte quelle imprese che non rispettano i diritti dei lavoratori o della natura.
Come è cattivo il lavoro di chi lavora sempre perché comprato dalle grandi imprese, che lo pagano anche molto purché non abbia orari,… perché il lavoro diventi tutta la vita…..Il lavoro diventa ‘fratello’ quando c’è anche il tempo del non lavoro, il tempo della festa. Gli schiavi non hanno tempo libero…. Senza il tempo della festa il lavoro torna lavoro schiavistico, anche se superpagato. E per poter fare festa dobbiamo lavorare: nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, e le feste diventano a volte giorni di tristezza perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare le festa è necessario poter celebrare il lavoro, l’uno scandisce il tempo e il ritmo dell’altra».
Infine, dopo aver parlato dell’insensatezza della idolatria del consumo Francesco sottolinea la altezza spirituale del lavoro dell’uomo e della donna quando offerto e vissuto alla presenza di Dio, e nella commozione generale, conclude con l’antica preghiera del lavoratore:
«Il lavoro è amico della preghiera, il consumo no. Il lavoro è presente tutti i giorni nell’eucarestia, i cui doni sono ‘frutto della vite e del lavoro dell’uomo’. Un mondo che non conosce più i valori e il valore del lavoro, non capisce più neanche l’eucarestia, la preghiera vera e umile delle lavoratrici e dei lavoratori. I campi, il mare, le fabbriche sono sempre stati altari dai quali si sono alzate preghiere bellissime e purissime, che Dio ha accolto e raccolto. Preghiere dette e recitate da chi sapeva e voleva pregare, ma anche preghiere dette con le mani, con il sudore, con la fatica del lavoro vero da chi non sapeva pregare con la bocca. Dio ha accolto anche queste e le continua ad accogliere anche oggi, anche qui ed ora.
Per questo, vogliamo terminare questo dialogo con una preghiera sul lavoro, per le lavoratrici e per i lavoratori.
È una preghiera antica e bellissima: il Vieni santo Spirito, che è anche una bellissima preghiera del lavoro e per il lavoro: “Vieni santo Spirito, manda a noi un raggio della tua luce. Vieni padre dei poveri, padre dei lavoratori e delle lavoratrici, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori. Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto. Lava ciò che è sporco, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna”».