Papa Francesco e don Puglisi

Si sono incrociate il 15 settembre le strade di due sacerdoti scomodi, simboli e profeti di una Chiesa che cambia e sa rischiare.

Don Pino Puglisi, la prima vittima della mafia a diventare beato in quanto martire, fu ucciso venticinque anni fa sotto casa, in piazzale Anita Garibaldi. Era il giorno del suo 56° compleanno. I processi penali e la causa di beatificazione hanno messo in luce un movente ben preciso: la sua colpa fu di essere un grande evangelizzatore e un educatore dei giovani. La mafia ebbe paura del fatto che «si portava i picciriddi cu iddu» (i bambini con lui) e «predicava tutta a iurnata» (predicava tutto il giorno). Parole del boss Leoluca Bagarella, riferite da collaboratori di giustizia.

Questo era già sufficiente alla mafia per toglierlo di mezzo e proseguire sulla via della violenza e dei “pìccioli”, il denaro in dialetto, espressione che papa Francesco ha voluto utilizzare durante la sua omelia del 15 settembre davanti a 100 mila persone.

Ho conosciuto don Pino per 15 anni, dai banchi del liceo fino al tempo di Brancaccio, quando tutto si concluse con un colpo di pistola alla nuca. E dopo la sua morte, attraverso ricerche di documenti e testimonianze, ho raccolto i suoi scritti più significativi nel volume Se ognuno fa qualcosa si può fare molto (Rizzoli – prefazione di mons. Corrado Lorefice).

Questi approfondimenti hanno messo in luce altri fatti: don Pino aveva sbarrato la strada ai politici collusi del quartiere, aveva vietato le feste che servivano solo ad omaggiare il potere dei boss, aveva cambiato il percorso delle processioni per non dover fare «l’inchino» sotto i balconi dei fratelli Graviano, mandanti del delitto. Non a caso, incontrando il clero in cattedrale, il papa ha proprio chiesto di mantenere alta l’attenzione sui percorsi delle processioni per evitare questi “inchini”. Don Pino lo faceva già agli inizi degli anni Novanta.

Credeva nello Stato e allo Stato chiedeva una scuola media, servizi per il quartiere, uno spazio per gli anziani, impianti sportivi. Nel quartiere, però, in quell’epoca non si muoveva foglia senza il permesso dei boss e il territorio era a loro disposizione. Un solo esempio: gli scantinati di via Hazon, che don Pino voleva utilizzare per creare la scuola, ospitarono l’esplosivo destinato a Paolo Borsellino. Anche Totò Riina, intercettato in carcere, sottolineò come don Pino contendesse il territorio palmo a palmo alla mafia. «Tutte cose voleva fare iddu – disse Riina –, la nuova Chiesa, il campo, i giochi per i picciriddi, ma noi gli dicevamo tu fatti i fatti tuoi, ma tu fatti u parrinu». Don Pino invece non si faceva i fatti propri, non lavorava all’ombra del campanile ma andava a cercare le sue pecorelle nei tuguri, nei vicoli.

Un parroco scomodo e povero, di periferia, che oggi Francesco addita a modello per tutti i sacerdoti sottolineando che «non viveva di appelli antimafia», cioè non cercava passerelle e interviste, ma operava nel concreto, producendo fatti e non parole.

Don Pino è stato anche profetico nell’analisi del fenomeno mafioso. Prima ancora dell’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi (maggio ’93), in una relazione che ho inserito nel mio volume, definì Cosa Nostra un fenomeno satanico, una religione della violenza, una struttura di peccato. Composta da uomini che si fingono religiosi solo per accrescere il proprio potere e hanno messo il Padrino al posto del Padre.

Papa Francesco, anni e anni dopo, ha ribadito questi concetti, in particolare nel giugno 2014 in Calabria, con la scomunica degli appartenenti alla criminalità organizzata. E al Foro Italico di Palermo è andato oltre, con una chiarezza esemplare: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi». Speriamo (e preghiamo) perché il suo appello alla conversione dei boss tocchi davvero tanti cuori, magari con l’intercessione dall’alto del caro padre Pino e del suo meraviglioso, indimenticabile sorriso.

 

 

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