Il papa e la chiesa del popolo
Papa Francesco ha voluto iniziare il suo viaggio in Cile con un gesto, la visita alla tomba del“vescovo dei poveri”, monsignor Enrique Alvear Urrutia, che sapeva da che parte stare a differenza di alcuni suoi confratelli molto morbidi con la dittatura e soprattutto con gli interessi degli oligarchi che essa doveva tutelare.
Diritti umani e popolazioni indigene
Sono seguite parole molto chiare sui nativi d’America, sterminati dai conquistadores e poi vessati per 500 anni in effetti da tutti i regimi dell’America Latina. «La saggezza dei popoli autoctoni può offrire un grande contributo. Da loro possiamo imparare che non c’è vero sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra e a tutto quello e tutti quelli che la circondano», ha detto alle autorità del Cile esaltando «il valore in questa Nazione, dove la pluralità etnica, culturale e storica esige di essere custodita da ogni tentativo di parzialità o supremazia e che mette in gioco la capacità di lasciar cadere dogmatismi esclusivisti in una sana apertura al bene comune, che se non presenta un carattere comunitario non sarà mai un bene».
Dolore e vergogna per i casi di pedofilia
Nel discorso, il papa ha anche espresso “dolore e vergogna” parlando della pedofilia e in particolare degli abusi commessi da ecclesiastici. «Dobbiamo – ha detto testualmente Francesco – ascoltare i bambini, che si affacciano al mondo con i loro occhi pieni di meraviglia e innocenza e attendono da noi risposte reali per un futuro di dignità. E qui non posso fare a meno di esprimere il dolore e la vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa. Desidero unirmi ai miei fratelli nell’episcopato, perché è giusto chiedere perdono e appoggiare con tutte le forze le vittime, mentre dobbiamo impegnarci perché ciò non si ripeta».
Un tema sul quale è poi tornato nell’incontro con i diaconi, i sacerdoti e i religiosi, parlando di «dolore per il danno e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, che hanno visto tradita la fiducia che avevano posto nei ministri della Chiesa». E “dolore per la sofferenza delle comunità ecclesiali”. Papa Francesco ha sottolineato entrambi questi aspetti nell’incontro con i sacerdoti e religiosi del Cile. «Conosco – ha confidato – il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minori e seguo con attenzione quanto fate per superare questo grave e doloroso male. Dolore anche per voi, fratelli, che oltre alla fatica della dedizione avete vissuto il danno provocato dal sospetto e dalla messa in discussione, che in alcuni o in molti può aver insinuato il dubbio, la paura e la sfiducia». «So – ha aggiunto il papa – che a volte avete subito insulti sulla metropolitana o camminando per la strada; che andare ‘vestiti da prete’ in molte zone si sta pagando caro». «Per questo – ha scandito – vi invito a chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo». Poi in serata il portavoce della Santa Sede, Greg Burke, ha comunicato che «il Santo Padre Francesco ha incontrato nella Nunziatura Apostolica di Santiago del Cile, dopo il pranzo, un piccolo gruppo di vittime di abusi sessuali da parte di preti. L’incontro si è svolto in forma strettamente privata. Nessun altro era presente: solamente il papa e le vittime. E questo perché potessero raccontare le loro sofferenze a papa Francesco, che li ha ascoltati e ha pregato e pianto con loro».
Laici non servitori del clero
Poi nell’incontro con i vescovi che, nella serata di martedì, Francesco ha indicato un criterio stringente per la Chiesa locale, che soffre per le contestazioni di settori che sarebbe facile e sbrigativo definire estremisti. «Diciamolo chiaramente, i laici – sono state le sue parole – non sono i nostri servi, né i nostri impiegati. Non devono ripetere come ‘pappagalli’ quello che diciamo». Secondo il Pontefice, «la mancanza di consapevolezza di appartenere al Popolo di Dio come servitori, e non come padroni, ci può portare a una delle tentazioni che arrecano maggior danno al dinamismo missionario che siamo chiamati a promuovere: il clericalismo, che risulta una caricatura della vocazione ricevuta. La mancanza di consapevolezza del fatto che la missione è di tutta la Chiesa e non del prete o del vescovo limita l’orizzonte e, quello che è peggio, limita tutte le iniziative che lo Spirito può suscitare in mezzo a noi». Si fa strada così un «sentire postmoderno: pensare che non apparteniamo a nessuno, dimentichiamo che siamo parte del santo Popolo fedele di Dio e che la Chiesa non è e non sarà mai un’élite di consacrati, sacerdoti o vescovi».
Incontro con le mamme in carcere
Commovente anche l’incontro con le giovani mamme detenute nel Penitenziario femminile. Qui Francesco ha rivolto un appello all’intera società perché si abbandoni «la logica semplicistica di dividere la realtà in buoni e cattivi, per entrare in quell’altra dinamica capace di assumere la fragilità, i limiti e anche il peccato, per aiutarci ad andare avanti». «La sicurezza pubblica – ha affermato Francesco – non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria. La società ha l’obbligo di reinserire i detenuti, uno per uno, secondo i tempi di cui ciascuno ha bisogno. Si deve esigerlo». «Essere privo di libertà – ha spiegato il Pontefice parlando nella palestra del centro penitenziario femminile di Santiago del Cile – non è la stessa cosa che essere privo di dignità». Per questo, ha scandito, «bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore, anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto, darà sempre frutto e vi verrà ricompensato».
Una giornata, la prima del ventiduesimo viaggio pastorale di Francesco, interamente trascorsa nella Capitale del Cile e iniziata a Palazzo La Moneda, tristemente famoso per essere stato il teatro del dramma delle ultime ore di Salvador Allende nel settembre 1973 e per aver ospitato poi per un ventennio il sanguinario dittatore Augusto Pinochet. A quella tragedia, Francesco si è riferito con trasparenza quando ha parlato dei «diversi periodi turbolenti che il popolo cileno ha saputo affrontare riuscendo tuttavia, non senza dolore, a superarli».
“La speranza è il nuovo giorno, lo sradicamento dell’immobilità, lo scuotersi da una prostrazione negativa”, ha detto infine citando Pablo Neruda nell’omelia della messa celebrata al Parco O’Higgins per oltre 400 mila fedeli. Qui ha voluto lanciare un monito al Cile e all’intera America Latina che vivono una fase di riflusso dopo la promettente stagione di governi di sinistra che non sono riusciti a resistere alla forza delle oligarchie locali che si opponevano alle le loro politiche sociali basate sulla giustizia (tradizionalmente sostenute dagli Stati Uniti, come si è visto qui con il golpe di Pinochet e come si vede oggi in Venezuela). Con le sue parole e soprattutto con la sua presenza, Francesco ha dunque esortato i cileni a “sradicare l’immobilità paralizzante di chi crede che le cose non possono cambiare, di chi ha smesso di credere nel potere trasformante di Dio Padre e nei suoi fratelli, specialmente nei suoi fratelli più fragili, nei suoi fratelli scartati”. “Seminare la pace a forza di prossimità, a forza di vicinanza! A forza di uscire di casa e osservare i volti, di andare incontro a chi si trova in difficoltà, a chi non è stato trattato come persona, come un degno figlio di questa terra. Questo è l’unico modo che abbiamo per tessere un futuro di pace, per tessere di nuovo una realtà che si può sfilacciare”, è stata la ricetta suggerita da Papa Francesco per il quale prima di tutto il Cile ha bisogno di riconciliazione, con i nativi, tra le parti politiche (dopo il sangue innocente che hanno fatto scorrere i militari) e anche all’interno della Chiesa a causa delle coperture degli abusi. “L’operatore di pace sa che molte volte bisogna vincere grandi o sottili meschinità e ambizioni, che nascono dalla pretesa di crescere e ‘farsi un nome’, di acquistare prestigio a spese degli altri.