Paolo “suggeritore” della morale di Alfonso de’ Liguori

Nell'Ottocento, secolo di grandi controversie e conflitti sulla "fedeltà maggiore" fra lassisti e rigoristi, Alfonso M. de' Liguori propone l'amore come centro della proposta morale cristiana.
Alfonso Maria de' Liguori

Alfonso M. de’ Liguori (1696-1787), da vescovo, a causa della malattia non poteva più fare le sue visite pastorali. Inchiodato sulla sedia e piegato dall’artrosi, scriverà insieme ad altri libri la cosiddetta “morale di santità”, la sua Pratica di amar Gesù Cristo1. 

Ben presto la sua opera venne posta accanto alle altre quattro opere “sull’amore di Dio” che nella letteratura cristiana hanno ricevuto un posto significativo ed ebbe un forte influsso sulla vita di tanti santi e di tutta la Chiesa2.

La Pratica di amar Gesù Cristo è composta da 17 capitoli. I quattro capitoli introduttivi trattano dell’amore per Gesù Cristo in generale. Nei capitoli successivi Alfonso espone il messaggio morale del NT, articolandolo nella forma di una meditazione sull’inno della carità, contenuto nel capitolo 13 della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Questi capitoli, oltre ad essere un ampio commento del brano paolino, sono intessuti di citazioni bibliche e patristiche, con riferimenti a toccanti episodi di vita umana. 

Prima di tutto la carità 

Alfonso è convinto che davanti all’inno della carità di san Paolo non si può rimanere indifferenti. Il testo esercita su qualunque lettore un fascino che coinvolge e trascina: “niuno meglio insegna quali siano i caratteri e la pratica della carità, che il gran predicatore della carità S. Paolo. Egli … dice primieramente che senza la carità l’uomo è nulla, e nulla gli giova” (38-39)3.

Non ci meraviglia dunque la scelta “morale” del brano paolino sulla carità che indubbiamente appartiene alle pagine più vive e sentite di tutto il NT. L’amore viene presentato qui come una realtà altissima, ma anche molto pratica, percorribile, come lo dice lo stesso Paolo: “Vi insegno una via che sorpassa ogni altra” (1 Cor 12, 31).

Con questa immagine della “via”, Paolo parla appunto di “camminare”, “correre”, “inseguire”, di un dinamismo, quindi, tipico della vita pratica del cristiano. Si tratta della via dell’amore. Su questa base Alfonso considera l’amore come un valore da accogliere con generosità e prontezza. Il segreto della “via” mostrata da san Paolo è appunto l’amore di Gesù, nostra “Via”.

Questo amore è talmente necessario e determinante che senza di esso qualsiasi attività si dissolverebbe nel nulla: “Se dispensasse tutti i suoi beni a’ poveri, se anche soffrisse volontariamente il martirio, ma senza la carità, in modo che ciò facesse per altro fine che per piacere a Dio, niente gli giova” (39).

Alfonso cercherà dunque di riscoprire, con Paolo, l’origine di questo amore, così assolutamente indispensabile. Si tratta dell’amore di Dio, effettivamente espresso nel mistero pasquale di Cristo, con una forza enorme che non può lasciare indifferenti. In questo amore si trova una grande potenza, capace di muovere la vita cristiana, proprio come dice Paolo: “L’amore di Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14).

Alfonso commenta: “volle dire l’Apostolo che non tanto ciò che ha patito Gesù Cristo, quanto l’amore che ci ha dimostrato nel patire per noi, ci obbliga e quasi costringe ad amarlo” (5). Aggiungerà in un altro luogo: “In questo gran mistero della Redenzione umana bisogna considerare il pensiero e la premura ch’ebbe Gesù Cristo di trovar diverse maniere per farsi da noi amare… Merita o no di essere da noi amato un Dio che ha voluto soffrir tante pene e praticar tanti modi per cattivarsi il nostro amore?” (35).

La struttura interna di quest’opera morale di Alfonso girerà attorno alla prassi dell’amore: “Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo” (1). L’Autore ci presenta, dunque, l’arte di amare Gesù Cristo. È una concatenazione: amare con Gesù il Padre e con Gesù e con il Padre amare veramente gli altri. La spiritualità alfonsiana sarà centrata sull’amore di Cristo e sull’amore che il Padre dimostra nel Figlio al quale chiama e attrae ciascuno di noi.

Alfonso ci mostra in questo modo la fisionomia dell’amore pratico, partendo dalle istanze negative presenti nell’inno della carità di san Paolo. Nei suoi 13 capitoli, la Pratica presenterà inoltre le principali virtù da praticare e i difetti da evitare, per conservare ed aumentare in noi il santo amore, l’agape. Queste virtù, secondo san Alfonso, sono espressamente manifestate ed emanate dalla persona trasformata in Cristo e fanno vedere “se veramente in noi regna l’amore che dobbiamo a Gesù Cristo” (39). Quali impegni etici derivano per il cristiano dal messaggio della carità?

La carità è la pienezza della legge 

“Dice S. Paolo, che l’amore è la pienezza della legge: Plenitudo legis est dilectio (Rm 12, 10). Plenitudo, dice il testo greco complexio legis, il compimente della legge è l’amore” (33). Secondo queste parole del Dottore zelantissimo, proprio il dono dell’amore diventa nel cristiano una legge iscritta nel suo cuore, la legge che guida il cammino verso la meta del vero amore che è Dio stesso. Il dono del vero amore deve essere sempre visto insieme come il punto di partenza e di arrivo di ogni formazione cristiana delle coscienze, la quale ha il suo centro proprio nel conoscere l’amore di Cristo e nel sapersi unire con il suo amore.

Sulla base di questa affermazione una legge morale obbliga, allora, soltanto in quanto “tocca” il cuore dell’uomo, nel quale la legge dell’amore è iscritta. L’amore di Dio nel cristiano diventa, così, una legge nuova, alla luce della quale bisogna interpretare tutte le leggi morali. L’amore non indebolisce il dovere, anzi lo rende più esigente, in quanto l’agire moralmente obbliga a rispondere all’amore di Dio.

Soltanto per via dell’amore, dunque, Alfonso ha potuto costruire la proposta di una morale libera nello stesso tempo sia dal minimalismo che dal rigorismo. Il grande moralista del Settecento, avendo riscoperto nei cuori dei peccatori una reale presenza di Cristo Risorto, comprendeva che il suo compito fondamentale era quello di rendere il cristiano consapevole che può e deve essere inserito in una vita nuova, quella che si vive “in Cristo”.

La santità: scopo ed esigenza per tutti

Per Alfonso è chiaro che la vita morale e quella spirituale sono strettamente correlate. Cerca, perciò, un concetto di vita morale valido per tutti e lo trova nella chiamata universale alla santità. La santità come una proposta fatta ad ogni cristiano senza eccezione, alla portata di tutti, perché Dio vuole tutti santi. Anche qui Liguori si lascia “suggerire” da San Paolo. “È un grande errore … quel che dicono alcuni: Dio non vuol tutti santi. Non dice S. Paolo: ‘Haec est … voluntas Dei, santificatio vestra’ (1 Ts 4, 3)? Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato” (79).

La vita cristiana si riconduce alla carità

Sulla base delle considerazioni precedenti chiediamo a san Alfonso: qual è il principio della vita morale che apre alla vita spirituale e si protende alla santità? Egli risponde: “Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore. Chi ama me, disse Gesù medesimo, sarà amato dall’eterno mio Padre” (1). La tensione alla santità, dunque, non deriva da una obbligatorietà sancita dallo “stato di perfezione”, ma risulta piuttosto come conseguenza di ciò che costituisce la sintesi della vita cristiana, cioè la carità.

La conseguenza è il rifiuto di qualsiasi tiepidezza e di progetto irreale di vita cristiana che si limiti ad evitare il gravemente proibito: “poiché la carità ama la perfezione, per conseguenza aborrisce la tepidezza colla quale servono taluni a Dio con gran pericolo di perdere la carità, la divina grazia, l’anima e tutto” (73).

In che cosa consisterà, allora, il camminare verso la santità? In quale modo il credente può crescere nell’amore vero? Alfonso darà la risposta a queste domande illustrando il segreto della santità, intesa come maturità dell’amore, nella uniformità con la volontà di Dio e nella sequela di Cristo, corroborati dal distacco (conversione) e dalla preghiera (unione con Dio).

Come si può intuire, sono elementi tipicamente paolini, compresi ed espressi nelle categorie più sentite e più care al “santo del secolo dei Lumi”. Percorrendole brevemente, possiamo vedere come esse, da paoline, diventino riverberazioni proprie nell’anima di Alfonso.

Uniformità alla volontà di Dio

Ci troviamo nel campo della mistica di san Paolo, fatta propria dal Liguori. Si va oltre la conformità, tanto vera e tanto cara a molti santi. La morale della carità conforma e uniforma con il suo divino Paradigma! Secondo sant’Alfonso la carità “va sempre unita colla verità conoscendo che Dio è l’unico e vero bene, perciò aborrisce l’iniquità che si oppone alla divina volontà, e di altro non si compiace, se non di quello che vuole Iddio” (152).

L’uniformità alla volontà di Dio – cioè diventare una cosa sola con il suo progetto – presuppone una fiducia totale nella fede che la volontà di Dio è sempre amore. Ciò significa affidarsi completamente a lui, rimettersi senza riserve nelle sue mani: “La nostra uniformità al divino volere ha da essere intiera senza riserba, e costante senza rivocazione. Qui consiste il sommo della perfezione e ciò, replico, debbono tendere tutte le nostre operazioni, tutti i desideri e tutte le nostre orazioni” (154).

Quando il cristiano si abbandona totalmente a Dio, la sua volontà e il cuore pervengono alla verità e raggiungono la libertà redenta: “Quei che ne’ loro affari non guardano altro che il volere divino godono quella santa libertà di spirito che hanno i figli di Dio, la quale fa che abbraccino ogni cosa che piace a Gesù Cristo, nonostante qualunque ripugnanza dell’amor proprio o del rispetto umano. L’amore a Gesù Cristo mette i suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto ad essi è eguale, il dolce e l’amarlo: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono di quel che piace a Dio” (71).

L’uniformità alla volontà di Dio scaturisce dal precetto dell’amore: “Iddio vuole che ognuno di noi l’ami con tutto il cuore” (153). La perseveranza nell’uniformità porta poi frutti reali: “Se noi stessimo uniti colla divina volontà in tutte le avversità, ci faressimo certamente santi, saressimo i più felici del mondo” (156).

La gioia inalterabile che niente e nessuno può togliere, la libertà interiore dal proprio orgoglio gonfiato o ferito dal timore di perdere la stima, la fede crescente e incrollabile di un cuore e di un volto sempre sereno, sono i frutti più belli della più autentica e coerente uniformità al disegno di Dio presente in ognuno di noi.

Alfonso esclama: “Oh beato chi vive tutto ed abbandonato nel divino volere! Egli non si gonfia per gli successi felici né si abbatte per gli avversi, sapendo che tutti vengono dalla stessa mano di Dio. La sola volontà di Dio è la regola del suo volere; e perciò non fa altro se non quello che fa Iddio. Non s’impegna a far molte cose, ma solo a far perfettamente ciò che intende esser gusto di Dio. Quindi antepone le più picciole obbligazioni del suo stato alle azioni più grandi e gloriose, vedendo che in queste vi può aver parte l’amor proprio, ma in quelle vi è certamente la volontà di Dio” (71).

In questo modo, l’affermazione di Alfonso “l’amore insegna a non fare mai la cosa che gli [a Dio] dispiaccia ed a far tutto ciò che gli gradisce” (1) anticipa in qualche modo il Concilio Vaticano II, quando esso tratterà della dignità della coscienza morale e la definirà come la voce dell’amore che chiama l’uomo “sempre ad amare e a far bene e a fuggire il male”, voce che “quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro” (GS 16). Sant’Alfonso, dunque, fonda la sua concezione morale sull’amore di Dio come fine supremo di tutta la nostra vita morale e vissuto nella ricerca continua del gusto di Dio.

La carità realizzata nella sequela di Cristo

Amare Gesù Cristo coincide con la sequela. Con la nostra vita abbiamo l’opportunità di dare una risposta di amore a tutto quello che Dio ha fatto per noi. Alla domanda “forse Iddio non si merita tutto il nostro amore?”, Alfonso risponde con un grato ricordo dei doni che l’umanità ha sempre ricevuto da Dio (cf. 2), e sottolinea come Cristo trova tanti modi per farsi amare e per attrarre l’uomo a sé: “In questo gran mistero della Redenzione umana bisogna considerare il pensiero e la premura ch’ebbe Gesù Cristo di trovar diverse maniere per farsi da noi amare. Se voleva egli morire per salvarci, bastava che morisse insieme cogli altri bambini uccisi da Erode; ma no, volle prima di morire fare 33 anni una vita piena di stenti e di pene, ed in questa sua vita, per tirarci ad amarlo, volle a noi comparire in tante sembianze diverse” (35).

La sorte di Gesù diventa così la sorte di ogni uomo, di ogni figlio di Dio che vuole seguirlo: “Or siccome Iddio ha trattato il suo Figlio diletto, così ancora tratta ognuno che ama e riceve per suo figlio” (41). Gesù Cristo è, così, la norma dell’amore cristiano: “nel giorno in cui avrà da giudicarsi la causa della nostra salute, per aver la sentenza felice de’ predestinati, la nostra vita dovrà trovarsi uniforme alla vita di Gesù Cristo”.

Qui Alfonso di nuovo si rifà a san Paolo, ma lo unisce a san Pietro: “Nam quos praescrivit et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui (Rm 8,29). Questo fu il fine per cui l’Eterno Verbo discese in terra, per insegnarci col suo esempio a portare con pazienza le croci che Dio ci manda: Christus passus est pro nobis, scrisse S. Pietro, vobis reliquens exemplum ut seguamini vestigia eius (1 Pt 2, 21)” (ivi).

La sequela ha per sant’Alfonso un valore portante nell’insieme della sua sintesi morale-spirituale. La sequela di Cristo si esprime in modo particolare nell’accettare nella nostra vita elementi difficili: “Chi ama Gesù Cristo desidera vedersi trattato come fu Gesù Cristo, povero straziato e disprezzato” (51); “Piace a Dio chi si mortifica con digiuni, cilizi e discipline, per la fortezza che vi esercita in mortificarsi; ma molto di più piace chi è forte in soffrir con pazienza ed allegrezza le croci che Iddio ci manda” (ivi).

La sequela di Cristo è, pertanto, l’unica strada verso la santità: “Gesù Cristo disse: Si quis post me venire abnegat semetipsum (Mt 16, 24). Ecco ove consiste tutto ciò che abbiamo da fare per farci santi, negare se stessi e non seguire la propria volontà” (138-139).

Il distacco come amore

Nella Pratica possiamo notare come il distacco sia l’esigenza più profonda del vivere l’amore di Dio e la sua volontà. È in sostanza la chiave della spiritualità alfonsiana, orientata alla uniformità alla volontà di Dio: “per giungere alla perfetta unione con Dio è necessario un totale distacco dalle creature (129).

In prima istanza è proprio l’amore questa forza che provoca nel cristiano il distacco da tutte le cose, distacco che non è disprezzo delle persone, delle cose, ma è un non-possesso, è libertà, è vita, è rispetto sacro di tutto e di tutti, che rende più perfetto l’amore: “Per amare Dio con tutto il cuore vi bisognano due cose: per 1° levarne la terra, per 2° riempirlo di santo amore. Anche quel cuore in cui sta qualche affetto terreno non può esser mai tutto di Dio” (121).

Questo distacco indica teologicamente in Alfonso il bisogno di redenzione di tutto l’uomo e della stessa creazione, coinvolta nel peccato dell’umanità. Esso non significa fobia del mondo o del corpo, ma richiede solo la presa di distanza radicale dal mondo del peccato4.

In questa maniera Alfonso ci presenta un distacco come apertura alla liberazione per poter vivere il vero amore. Questo amore redento e redentore si dirige soprattutto a Dio in Cristo: “chi ama veramente Gesù Cristo perde l’affetto a tutti i beni di terra, e cerca spogliarsi di tutto per tenersi unito solo a Gesù Cristo. Verso Gesù son tutti i suoi desideri, a Gesù sempre pensa, sempre a Gesù sospira, e solo a Gesù in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni occasione cerca di piacere. Ma per giungere a ciò bisogna continuamente attendere e vuotare il cuore d’ogni affetto che non è per Dio” (141-142).

Secondo Alfonso il distacco realizzato in pienezza è, tuttavia, la persona di Gesù Cristo stesso. Nei misteri dell’incarnazione, della passione e dell’Eucaristia, egli si presenta come colui che si dona totalmente per l’umanità peccatrice, indegna di essere amata. Gesù in croce è l’immagine del distacco supremo. Egli si abbandona con fiducia nelle mani del Padre e mostra il suo amore senza misura, pregando per i crocifissori e bestemmiatori: “Questa mansuetudine poi seguì ad esercitarla sino alla morte. Stando in croce, mentre tutti lo schernivano, egli altro non faceva che pregare l’Eterno Padre a perdonarli: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt (Lc 23, 34)” (143).

La morale che si nutre di preghiera

La proposta di sant’Alfonso per la vita morale di tutti i fedeli si fonda sulla preghiera. La sua dottrina sulla preghiera è la chiave di tutta la sua vita, della sua teologia e della sua attività pastorale. Le sue opere, e specialmente la Pratica, possono considerarsi come una continua preghiera, fatta di contemplazione amorosa e di invocazione fiduciosa del Cristo, tendenti a una proposta concreta di vita.

Alfonso vuole, con le proprie opere, stimolare ed educare i cristiani alla preghiera fiduciosa, affinché questi non dubitino che Dio voglia davvero la salvezza di tutti. La nostra crescita nell’amore dipende dalla preghiera vissuta secondo il Vangelo, senza interruzione, preghiera che è anelito continuo, sguardo di amore verso Colui che è l’Unico Bene, da cui tutto riceviamo.

Così Alfonso sottolinea questo pensiero: “più necessario per la vita spirituale e per acquistar l’amore di Gesù Cristo, è il mezzo della preghiera. Io dico che in questo mezzo Iddio ci fa conoscere il grande amor che ci porta. Qual prova maggiore d’affetto può dare una persona ad un amico, che dirgli: Amico mio, cercami tutto quello che vuoi e da me l’avrai?… Quando vedi che non manca in te la preghiera, sta sicuro che non ti mancherà la divina misericordia” (100).

La preghiera realizza nel cristiano quella perfetta comunione di vita che raggiunge la sua pienezza nell’amore che si rivela a noi come il compimento della morale. La preghiera è, allora, il cibo delle anime, divenute, per un prodigio di grazia, partecipi della stessa vita di Dio. Della preghiera lo stesso Alfonso dice: “bisogna insieme sapere che quando ella ci è utile, altrettanto ci è necessaria per salvarci” (101).

In maniera più ampia così spiega la necessità della preghiera per la nostra salvezza: “dicono i SS. Padri che a noi la preghiera è necessaria non solo di necessità di precetto per cui dicono i dottori che chi trascura per un mese di raccomandare a Dio la sua salute eterna non è scusato da peccato mortale, ma anche di necessità di mezzo; viene a dire che chi non prega è impossibile che si salvi. E la ragione in brevesi è perché non possiamo ottener la salute senza aiuto delle divine grazie, e queste grazie non le concede Iddio se non a chi prega” (101-102).

La preghiera, tuttavia, prima di essere un’attività umana è un dono da parte di Dio. Essa è la grazia stessa che dal cuore prorompe nella sua manifestazione esteriore, nelle parole e nel volto che implora. Sulla base di questo, possiamo comprendere l’insistenza con cui Gesù Cristo ci raccomanda di pregare; e se, dunque, la preghiera è grazia, è chiaro che senza di essa non v’è salute.

Questo stretto collegamento che esiste tra grazia e preghiera ce lo spiega chiaramente lo stesso sant’Alfonso: “È certo che per vincere le tentazioni de’nemici abbiamo assoluto bisogno del divino aiuto; e talvolta in certi insulti più veementi, la grazia sufficiente che Iddio dona a tutti potrebbe bastarci a resistere, ma per la nostra inclinazione non ci basterà, e vi bisognerà una grazia speciale. Chi prega l’ottiene, ma chi non prega non l’ottiene e si perde. Parlando singolarmente della grazia della perseveranza finale, di morire in grazia di Dio, ch’è la grazia assolutamente necessaria alla nostra salute, senza la quale saremo perduti in eterno” (101).

È significativo notare come, secondo sant’Alfonso – non soltanto teologo, moralista, ma anche un santo la cui vita è preghiera viva – tutti hanno lo stesso diritto di pregare perché “la forza della preghiera ad ottenerci le grazie non consiste nei meriti nostri, ma nella misericordia di Dio che ha promesso di esaudire chi lo prega” (104).

Alfonso, cantore di Maria, non ha potuto qui dimenticarla. Come da bambino aveva appreso dalla mamma Anna il segreto della preghiera, così guarda la Madonna come maestra di preghiera, come Mamma diventata preghiera per noi, dispensatrice dei doni del Figlio ad ogni uomo: “E quando preghiamo Dio, ricordiamo di raccomandarci ancora alla dispensiera delle grazie Maria … Se Maria prega ancora per noi, siamo sicuri, perché le preghiere di Maria son tutte esaudite, né hanno mai ripulsa” (105).

Si vede chiaramente come la preghiera sia un progressivo trasformarsi della creatura in Dio, fino a quella perfetta comunione che si realizza nell’amore, ed è una collaborazione con Cristo per la Redenzione dell’umanità. Nella preghiera, in generale, sant’Alfonso sottolinea il ruolo dell’orazione mentale come il mezzo per arrivare alla santità. Secondo lui, chi lascia l’orazione lascerà di amare Gesù Cristo (cf. 89).

La santità si impara, infatti, nell’orazione: “Nell’orazione si concepiscono i santi pensieri, si esercitano gli affetti divoti, si eccitano i desideri grandi e si fanno risoluzioni ferme di darsi interamente a Dio; e così l’anima poi gli sacrifica i piaceri terreni e tutti gli appetiti disordinati” (90).

È necessaria, pertanto, l’orazione mentale per poter raggiungere la santità, perché senza di essa non si parla con Dio: “chi non fa orazione mentale poco vede i bisogni dell’anima sua, poco conosce i pericoli della sua salute, poco i mezzi che deve usare per vincere le tentazioni, e così, poco conoscendo la necessità che ha di pregare, lascerà di pregare e certamente si perderà” (93). 

Questa riflessione sul timbro paolino della morale alfonsiana ci ha condotti a rivisitarne i luoghi più rappresentativi, per vedere come san Paolo dia struttura, contenuto e ispirazione al pensiero del Patrono dei moralisti. Il centro di tutto è l’amore, come il dono più alto fatto all’uomo e nello stesso tempo come “legge” che lo orienta verso la casa del Padre, uniformandolo con l’agape di Dio ed essendo condivisa con altri redenti sulla via della carità.

L’amore di Dio diventa nel cristiano una legge nuova, dalla quale scaturisce il dovere intimo di obbedirle, perché l’agire morale non è altro che rispondere all’amore di Dio. Il cristiano, scoprendo questa legge iscritta nel cuore, si sente pertanto chiamato a vivere una conversione ascendente verso un bene sempre maggiore.

Per sant’Alfonso la vita morale non deve esaurirsi nell’osservanza del minimo legale, cioè quanto è sufficiente per non andare all’inferno. Il suo punto di partenza è, invece, il modello evangelico dell’uomo come persona creata ad immagine di Dio e chiamata alla santità. Egli propone a tutti i battezzati, senza eccezione, di essere perfetti come è perfetto il Padre dei cieli. Per Alfonso, tutta la sua attività di scrittore e di missionario aveva proprio questo scopo: elaborare una proposta di vita cristiana che permettesse a tutti il cammino verso la santità nell’amore.

Si avvicinavano così i tempi della primavera nuova, quella del Concilio Vaticano II, il quale avrebbe visto la “perfecta caritas” come strada maestra della santità, raggiungibile tramite la sequela uniformante i discepoli a Gesù, epifania dell’amore del Padre e dei fratelli.

Per noi, cristiani del terzo millennio, come dei millenni passati e di quelli a venire, non c’è altra via per diventare santi, altri Gesù, se non attraverso la pratica di amare Dio in Gesù Cristo che si fa presente nei fratelli. Ancora un’altra volta, san Paolo ha trovato modo di illuminare la nostra vita per farci scoprire, attraverso la sua originale esperienza, il segreto della felicità di chi, come Alfonso, vuole rispondere all’Amore!

 

NOTE

1 “È opera buona per tutti … ed in Napoli ha cominciato ad avere molto applauso. A me poco importa applauso: il mio desiderio è che sia amato Gesù Cristo mio, specialmente in questi tempi, ne’ quali in Napoli par che Gesù Cristo sia affatto sconosciuto. E così se gli altri non vogliono amarlo, amiamolo almeno noi” – Alfonso M. Liguori, Lettere, II, 76.

2 Le quattro opere sono: De diligendo Deum et proximum di S. Bernardo; il libretto De adhaerendo Deo, che va sotto il nome di Alberto Magno; il trattato Stimulus divini amoris, attribuito a S. Bonaventura; il Traité de l’Amour de Dieu, di S. Francesco Sales.

3 Tutte le citazioni, di cui indichiamo tra parentesi le pagine, sono tratte da: A.M. de’ Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo e Opuscoli sull’amore divino, Roma 1933 (edizione critica).

4 Cf. B. Häring, Introduzione, in A.M. de’ Liguori, Apparecchio alla morte, pp. 11-12.

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